La scuola cattolica: la sadica storia vera dietro al film

Ricostruiamo al storia vera a cui è ispirato La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini.

Roma, 1975. Gianni Guido (Francesco Cavallo), Angelo Izzo (Luca Vergona) e Andrea Ghira (Giulio Pranno) sono tre ventenni della buona borghesia romana ma, a dispetto delle apparenze, non sono bravi ragazzi, hanno simpatie fasciste, sono violenti, con il vizio delle rapine a mano armata. Angelo Izzo è il più temibile della banda, con alle spalle anche una condanna per stupro. Nel settembre di quell’anno, Guido e Izzo conoscono tramite un amico Donatella Colasanti (interpretata nel film da Benedetta Porcaroli) e Rosaria Lopez (Federica Torchetti), due diciottenni di un quartiere popolare. I ragazzi le corteggiano, flirtano tanto da decidere di rivedersi dopo pochi giorni, invitandole a trascorrere insieme un po’ di tempo in una villa sul mare ad Anzio. La proposta si rivela una trappola, crudele e inquietante: le due vengono portate a San Felice Circeo e lì subiscono violenze di ogni tipo. Questa è la materia in cui affonda a piene mani La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini, liberamente ispirato all’omonimo romanzo (Premio Strega) di Edoardo Albinati (Emanuele Maria Di Stefano) che ripercorre uno dei fatti più drammatici e bestiali della storia italiana: il massacro del Circeo.

La scuola cattolica: la storia vera e le differenze rispetto al film di Stefano Mordini

La scuola cattolica_Cinematogra

Donatella Colasanti racconta così Angelo Izzo nel 2005:“Sembrava un bravo ragazzo. Parlava di musica classica, per farci buona impressione. Rosaria e io avevamo solo 17 anni! Ci ha invitate a una festa da ballo, dicendo che ci sarebbero stati ragazzi e ragazze, compagni di scuola. Per me la parola scuola fu una garanzia. Avevo visto Izzo e altri suoi amici diverse volte. Così per prendere un gelato. Quindi mi sono fidata. Quando siamo arrivate nella villa del Circeo, ci hanno fatte subito entrare in casa…”

La scuola cattolica, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, narra uno dei fatti di cronaca più sconvolgenti della storia d’Italia degli anni Settanta, un avvenimento dopo il quale nulla sarà più lo stesso: i figli possono nascondere nella loro testa misteri macabri, le figlie devono essere seguite e protette. Si tratta di fatti avvenuti tra il 29 e il 30 settembre 1975, a San Felice Circeo, sul litorale laziale, a poco più di 100 chilometri da Roma. Due ragazze vengono seviziate, picchiate e violentate per 30 ore di seguito. Una di loro muore, l’altra si salva fingendosi morta. Rosaria Lopez, 19 anni, e Donatella Colasanti, 17, abitano nel quartiere della Montagnola, a Roma, un sabato pomeriggio conoscono due ragazzi, Gianni Guido e Angelo Izzo che avevano frequentato il liceo classico all’istituto privato San Leone Magno, nel quartiere Trieste. Iniziano a frequentarli, ogni tanto li raggiungono al Fungo dell’Eur, il grande serbatoio dell’acqua con un ristorante al 14esimo piano, lì si incontrano i giovani neofascisti romani, così si definiscono pur non essendo impegnati politicamente – nel film in un tema in classe, uno studente dice che l’uomo più importante della storia è Hitler.

Il 28 settembre Izzo e Guido invitano le due ragazze alla festa di un amico ma in realtà hanno un’idea ben chiara, portarle in una villa a San Felice Circeo, Villa Moresca, di proprietà della famiglia di un terzo ragazzo, Andrea Ghira, 22enne figlio di un noto imprenditore romano. Quando la purtroppo famosa Fiat 127 Ghira è già lì, sulla porta di casa ad attenderli. I tre ragazzi iniziano a ridere, Izzo tira fuori una pistola.
La scuola cattolica porta al centro questa storia, l’evento tragico viene leggermente modificato, filtrato dall’utilità narrativa (ad esempio: Ghira è appena uscito di prigione e arriva nella Villa solo più tardi, sono Izzo e Guido ad invitare le due ragazze) perché l’intento del regista è quello di spiegarci non solo un avvenimento ma anche un’epoca, un periodo storico, ciò che ha formato quei mostri.

La scuola cattolica: la ricostruzione del Massacro del Circeo e di ciò che avvenne nella villa del terrore

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“Quando siamo arrivate nella villa del Circeo, ci hanno fatte subito entrare in casa. Ci hanno puntato una pistola contro, sghignazzando: “Ecco la festa!”. Poi ci hanno chiuso in un bagno minuscolo, senz’aria. Ci hanno spogliate, tolto gli anelli, i documenti, tutto quello che avrebbe potuto renderci identificabili. Sapevano benissimo cosa stavano facendo. Era tutto preparato. I sacchi in cui ci avrebbero messe, da morte, ce li hanno mostrati subito..”

Testimonia con queste parole tragiche e razionalissime Donatella, l’unica sopravvissuta al Massacro del Circeo – morta però giovane, a 47 anni, per un tumore. Nel film il rapimento è una conseguenza (e anche principio, motore della storia, il film inizia proprio con il ritrovamento della vettura da cui provengono i lamenti di Donatella) di una società altrettanto brutale, violenta, ipermaschilista e machista, come quella di quelle bestie che hanno violentato, picchiato quelle due ragazze, poco più piccole di loro, che vuole mostrare la sua virilità, nascondendo sotto al tappeto tutte i problemi, i nei, le verità, anche a volte scomode. La scuola cattolica dice fin dal titolo che l’intento è quello di mostrare una narrazione antropologica che sembra un estuario che si allarga. Il regista infatti afferma: “l’ambiente, la società borghese di quel momento e soprattutto il senso di impunità (…) sapere che si sarà impuniti per tanta violenza, perché qualcuno aiuterà a tirarti fuori dai guai con i soldi e la posizione sociale”. Il film scrive più linee narrative che abbracciano anche le figure genitoriali, mette in scena quei due “gusci”, famiglia e scuola, come ben sottolinea la voce narrante del film, Edoardo, istituzioni che dovrebbero crescere uomini “puri”, onesti, “nobili” ma che invece nascondono sotto il tappeto “una montagna di polvere”.

Nel film quei ragazzi sono figli di padri che li mandano ad una scuola cattolica e poi, invece di educarli, li picchiano furiosamente, costruiscono famiglie, vivendo nascostamente la loro omosessualità, sono figli di madri che non hanno ancora la loro indipendenza e sono solo pezzi di carne che devono concepire. Sono bestie tanto quanto è bestiale la società in cui vivono.

Il buono e remissivo Guido è stato picchiato dal padre che riesce a cancellare gli errori del figlio a suon di donazioni alla scuola ma poi di fronte alle vittime è uno stupratore tanto violento quanto lo era la cinghia del padre. Izzo all’inizio è solo un ragazzo terribile come tanti però, un fascistello, ma poi si manifesta per quello che è, un criminale senza scrupoli, un essere amorale, un mostro dal ghigno spaventoso e dagli occhi spiritati. Questi maschi pensano che le donne siano pezzi di carne – in una scena emblematica, dopo avere segregato le due ragazze, Guido a cena con la famiglia, guarda senza provare emozioni un una fetta di arrosto tagliata proprio come guarda i corpi delle sue vittime. Credono che si sia maschi solo in un certo modo, rappresentazione di una mascolinità tossica: cattivo, viscerale, sempre pronto alla violenza, al rapporto sessuale – unicamente uomo donna perché l’omosessualità non è considerata una possibilità -, un brutale animale che vive dei propri istinti.

Tutto si scrive per quelle tragiche 36 ore in cui le due ragazze prima tentano di liberarsi, hanno urlato, battono i pugni contro la porta, poi accettano speranzose di essere lasciate libere dopo l’atto, infine pregano gli aguzzini. Izzo e Guido le picchiano violentemente, le trascinano una alla volta in salotto in cui fanno di loro ciò che vogliono ma non si indugia mai troppo sulla violenza pur facendola tragicamente capire: i corpi nudi accasciati, il sangue che scorre, i lacci per iniettare la droga. Vanno avanti per ore, come nella realtà, anche nel film i personaggi si scambiano – nella realtà è Ghira che ad un certo punto prende l’auto e torna a Roma perché deve assolutamente pranzare con la famiglia, torna poche ore dopo e proprio in quegli attimi Rosaria Lopez viene uccisa, annegata nella vasca da bagno riempita d’acqua. Donatella si rende conto che l’unica possibilità è fingersi morta e questa è la sua salvezza. Fratture, ferite e contusioni, il corpo violato, così esce da quella casa nel bagagliaio della 127; questa è una delle immagini rimaste nell’album iconografico degli ultimi decenni, foto scattata da Antonio Monteforte che, come solito in quegli anni, era costantemente collegato con una radio sulle frequenze delle forze dell’ordine. Quella foto ha una potenza fortissima che fa parte della memoria del nostro tempo, in quel bianco e nero c’è tutto il dolore di quella ragazza e di quella che non ce l’ha fatta, un attimo catturato che ha reso questo massacro una pietra miliare della brutalità maschile e sociale.

Ridono e scherzano i due, nella realtà si sono detti, “shh, parliamo piano, dietro c’è gente che sta dormendo”, ne film parlano di loro come pezzi di carne e Guido dice all’amico, parafrasando: “non vedi come dormono bene?!” mentre guarda i loro corpi avvolti in coperte. Credono di averla fatta franca, forse neppure ci pensano, nel film si dividono e poi dovrebbero ritrovarsi per andare a mangiare una pizza con gli amici. L’auto si ferma in via Pola, nel quartiere romano Trieste.

La scuola cattolica: dopo quel bagagliaio la storia si spegne

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Il film si ferma quando Donatella esce da quella macchina e a parlare torna Edoardo che mette la parola fine alla storia. Allo spettatore però viene spiegato cosa accade dopo: la storia vera, bianco su nero. Izzo e Guido vengono arrestati poche ore dopo, Ghira non è stato mai trovato. La sentenza arriva il 29 luglio 1976: ergastolo per Gianni Guido e Angelo Izzo, ergastolo in contumacia per Andrea Ghira. Guido sconta appena ventidue anni di carcere, mentre nel dicembre 2004 Izzo ottiene la semilibertà dal carcere di Campobasso su disposizione dei giudici di Palermo. Il 28 aprile 2005 uccide di nuovo: le vittime sono Maria Carmela e Valentina Maiorano, moglie e figlia di un boss pentito che aveva conosciuto in carcere.

Per Donatella, l’unica sopravvissuta, la vita non è stata facile. Le parole della gente, quelle che condannano ancora oggi le vittime invece che i carnefici, quelle della società, si pensi che lo stupro non era un delitto contro la persona ma contro la morale e la situazione è cambiata solo nel 1996.
Lei è diventata il simbolo della sopravvissuta, rappresenta una tragica pagina della storia che purtroppo si ripete ancora oggi, dimostrando quanto ancora si debba fare contro la violenza, quanto ancora purtroppo le donne siano vittime due volte: prima durante l’atto, poi sulle pagine dei giornali, sulla bocca dell’opinione pubblica, negli occhi della gente.