Editoriale | L’horror di David Cronenberg: mostri e anomalie della carne e della psiche

Approfondiamo le tematiche portanti del cinema horror di David Cronenberg, poeta del dissidio fra carne e psiche.

Opere come La notte dei morti viventi (George Romero), L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi (Wes Craven) sono i più significativi frutti della radicale trasformazione che ha interessato il genere horror nel periodo che va dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli anni Settanta. Se prima dei grandi Settanta, infatti, l’esplorazione di certe tematiche legate all’occulto era prerogativa del cosiddetto B-movie, gli avvenimenti che scuotono gli Stati Uniti sul finire dei Sessanta cominciano ad essere d’interesse per un pubblico sempre crescente e il bisogno di raccontare le paure inizia a coinvolgere una fascia di registi di un calibro superiore (Roman Polanski su tutti). Per comprendere l’importanza di un regista come David Cronenberg nel panorama cinematografico dell’epoca risulta fondamentale, dunque, contestualizzare la sua nascita artistica facendo riferimento al periodo cui risale e al suo settore d’appartenenza (Stereo è considerabile, praticamente, quasi cinema underground).

David Cronenberg: così il mondo conobbe il genio

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Rabid – Sete di sangue (1977)

La figura di David Cronenberg emerge in un momento in cui il cinema horror, ancora in fase di primo approccio con un pubblico vasto, ha ben chiare le sue tematiche portanti, annesse alla paura del diverso. Come il cinema di genere precedente, le prime opere di Romero e dell’ancora acerbo Craven esplorano, seguendo le rispettive vie autoriali, l’imprevedibile intrusione dell’Altro in un mondo statico (che può essere tradotto in un microcosmo, come ne La notte dei morti viventi) e i suoi effetti, spesso devastanti, in piccola o grande scala. Le ripercussioni dell’altro sul sé individuale è un elemento che Cronenberg approfondirà già a partire dai primi lavori, per poi spingerla all’estremo con The Brood (1979) e alcune opere successive. Il genere horror si rivela al regista come l’unico mezzo in grado di trasporre sul grande schermo le fobie individuali più profonde: l’orrore legato alla scoperta dell’elemento estraneo ed esterno viene significativamente tramutato nell’orrore per un elemento estraneo che ora è interno, “sotto la pelle”, e inconoscibile.

Il cinema horror secondo David Cronenberg: mostri, fobie, repulsioni

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Brood (1979)

Nella sua prima prolifica fase, il cinema di David Cronenberg è un cinema di mostri plasmati sulle forme che la paura assume nei suoi differenti gradi, dall’ansietà alla fobia e dal terrore all’orrore, tappa finale. Attraverso la rappresentazione della continua tensione fra pulsioni e repulsioni, Cronenberg analizza il dissidio fra corpo e psiche di protagonisti che sono sempre totalmente immersi nella realtà tangibile: non si tratta, dunque, di una perlustrazione del subconscio come quella attuata da David Lynch, in cui nel surrealismo si trova il veicolo immaginifico ideale per comunicare l’impalpabilità delle idee rimasticate dalla mente in stato incosciente, bensì di un’indagine in cui alla collettività e alla società è conferito un ruolo preminente, quindi fortemente congiunta alla materia.

In tal senso sono esemplari le opere a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, come Rabid (1977), Scanners (1981), Videodrome (1983), tappe della fase body horror caratterizzata da un proliferare di immagini sessualmente allusive e da un particolare interesse per il contatto virulento fra un individuo e l’altro. La frenetica infezione da contagio in Rabid e i poteri telepatici in Scanners sono i residui delle piaghe e degli incubi crichtoniani legati all’industria farmaceutica narrati dagli autori degli anni Settanta, interessati alla componente prettamente scientifica della loro fantascienza. Il discorso viene esteso alle potenzialità distruttive dei mezzi di comunicazione in Videodrome, dove la mutazione genetica viene avviata dalla morbosa relazione fra individuo e macchina, qui irresistibile veicolatrice di immagini.

David Cronenberg: mai bene e male, solo vittime e carnefici nel suoi film

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Videodrome (1983)

Poiché nel cinema di Cronenberg il dualismo fra bene e male non è mai esistito ed è stato riespresso con la contrapposizione, ben più fragile, fra “carnefici” e “vittime”, fra esseri tossici ed esseri infettati che scambiano i propri ruoli gli uni con gli altri, è ovvio che il punto di arrivo della poetica del regista sia quello dell’annullamento ultimo del questo confine tra le due parti. Con La mosca (1986) il cinema sci-fi/horror viene definitivamente smantellato e rivisitato tramite la metaforica mutazione del protagonista, villain e vittima al tempo stesso. La creatura mostruosa, pronta a manifestarsi da dentro l’individuo e a squarciare i confini del corpo, è emblema di un’ansia collettiva che attanaglia anche personaggi secondari: il legame passionale fra Seth Brundle (Jeff Goldblum) e Veronica (Geena Davis) è disturbato e invalidato dall’irrompere di Brundlemosca, la fusione fra uomo e insetto (poi fra uomo-insetto e macchina, come in Videodrome) che finirà per disfare il corpo stesso di Brundle.

David Cronenberg e il tragico rapporto col mutamento e la sessualità

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La mosca (1983)

Oltre alla sua capacità di sintetizzare tutte le principali tematiche della poetica cronenberghiana (si ritrova l’ossessione per le macchine, ma c’è anche l’onnipotenza creativa esplorata nel successivo Dead Ringers), a far de La mosca un’opera unica nel suo genere e nella filmografia del regista è il suo assetto tragico, dato dall’elemento basilare su cui si basa il significato più classico di “tragedia”: la lucida accettazione e presa di coscienza, da parte del protagonista, del mutamento e dell’impossibilità di arrestare, in questo caso, il decadimento fisico del corpo. Inoltre, emerge in quest’opera più che mai la pessimistica visione di Cronenberg sul rapporto fra l’individuo e la propria sessualità (non sembra un caso che La mosca sia stato concepito in pieno periodo di AIDS Phobia e ansia da contagio generale). L’esplorazione dei propri desideri, già naturalmente connessa a inquietudini e ansie intime, finisce per intrecciarsi con qualcosa di superiore ed estraneo: prima ancora che con sé, l’uomo sembra costretto a fare i conti con la strettissima interrelazione fra se stesso e la società, le ansie collettive, le angosce dell’Altro, che urtano contro quelle individuali e spingono all’isolamento.

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