Una vita onesta: recensione del thriller Netflix
Una vita onesta è una pellicola Netflix che riesce a sorprendere e a intrattenere al contempo, con colpi di scena e profondità.
Una vita onesta, diretto dal regista svedese Mikael Marcimain, arriva su Netflix il 31 luglio portando con sé il peso delle domande scomode. Tratto dal romanzo omonimo di Joakim Zander, il film si muove con passo lucido e inquieto tra i territori della giustizia, dell’identità politica e dell’etica personale. Ambientato a Lund, città universitaria del sud della Svezia, segue le vicende di Simon, giovane studente di giurisprudenza, convinto che il diritto non sia solo uno strumento, ma un orizzonte morale. Il suo universo – fatto di ordine, metodo e aspirazioni borghesi – entra in collisione con Max, leader carismatica di un collettivo radicale, figura mobile e irrisolta, che sembra vivere in costante opposizione a ogni struttura.
Il cuore del film è proprio in questo incontro-scontro tra ideologia e desiderio, tra chi cerca di aderire a un modello di rettitudine e chi invece lo rifiuta per principio. Ma Una vita onesta non si limita a raccontare una storia d’amore impossibile: è soprattutto un’indagine sui confini sfocati dell’onestà – non quella imposta dalla legge, ma quella che ciascuno costruisce (e distrugge) dentro di sé. Non ci sono colpi di scena né redenzioni improvvise: solo una lenta discesa nel dubbio, che si insinua nei silenzi, nelle esitazioni, negli sguardi che sfuggono più che chiarire.
Una vita onesta: il thriller morale dove la tensione non è esterna ma relazionale

Marcimain evita con decisione il linguaggio del thriller convenzionale: non c’è azione, non c’è ritmo forzato, non c’è alcuna esigenza di spettacolo. La suspense si costruisce attraverso una sottrazione continua, una rarefazione narrativa che obbliga lo spettatore a sintonizzarsi sul non detto. È cinema che richiede attenzione, non per seguire una trama, ma per comprendere le fratture interne dei personaggi. Ogni scena sembra più una domanda che una risposta, e la tensione non nasce da ciò che succede, ma da ciò che potrebbe accadere — e non accade mai.
Simon, figura apparentemente lineare, diventa progressivamente più opaca. Non per colpa, ma per effetto dell’incontro con Max, che non si lascia leggere, non si offre mai del tutto. Lei è desiderio, disordine, rivendicazione. È una provocazione costante per chi, come Simon, ha sempre creduto nella correttezza come fondamento dell’identità. Il film suggerisce che proprio nei momenti in cui cerchiamo di essere “buoni”, è lì che possiamo diventare ciechi, se non addirittura complici. La radicalità di Max non è semplicemente ribellione: è una forma disperata di verità, che impone a Simon di scegliere tra l’idea di sé e ciò che sente davvero.
Un linguaggio visivo coerente: silenzio, freddezza, geometria
La forza del film non risiede solo nella scrittura – volutamente asciutta, priva di ogni retorica –, ma anche nel suo linguaggio visivo calibrato e coerente. La fotografia di Jakob Ihre sfrutta la luce naturale, i toni freddi, gli spazi architettonici svuotati di calore per costruire un paesaggio mentale più che geografico. Lund diventa così lo specchio dell’inquietudine: aule troppo grandi, corridoi deserti, camere immerse nella penombra suggeriscono una condizione emotiva più che un contesto. Il montaggio evita il climax: privilegia la ripetizione, la sospensione, lo stallo. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera di malessere trattenuto, dove l’inquietudine non esplode ma scava.
Il lavoro degli attori è, in questo senso, centrale. Simon Lööf regala una prova di sottrazione notevole: ogni esitazione è misurata, ogni silenzio parla. Il suo Simon è un personaggio che cambia senza mai dichiararlo, e proprio per questo è credibile. Al suo fianco, Asta Kamma August compone una Max elusiva, spigolosa, mai conciliata. Non c’è fascino forzato, né costruzione carismatica: il suo personaggio è instabile, sfuggente, e proprio per questo reale. Il loro rapporto – mai davvero sentimentale, mai del tutto ideologico – è ciò che tiene in piedi il film, e ciò che lo rende disturbante.
Una vita onesta è un film che pretende sincerità dallo spettatore
A colpire, al termine della visione, è la sensazione che Una vita onesta non voglia lasciare nulla di risolto. È un film che rifiuta il giudizio e allo stesso tempo lo rende inevitabile. Ci chiede: fino a che punto siamo disposti a mettere in discussione ciò che consideriamo “giusto”?
E cosa succede quando scopriamo che l’integrità, da sola, non basta più? È un film che lavora sulle crepe, non sulle certezze. Che non offre empatia, ma ci interroga nel profondo, chiedendoci non se siamo buoni, ma quanto siamo disposti a guardare davvero la complessità del nostro agire.
Una vita onesta: valutazione e conclusione

In un panorama in cui molte storie si risolvono con messaggi chiari, Una vita onesta ha il coraggio dell’ambiguità. È un’opera scomoda, a tratti respingente, ma anche profondamente necessaria. Perché ci ricorda che la moralità non è un’etichetta, ma un processo quotidiano, fragile, spesso contraddittorio. E che essere onesti, a volte, significa proprio smettere di credere di avere ragione.