Umberto B. – Il Senatur: recensione del film su Umberto Bossi
Umberto B. di Francesco Amato è stato presentato al 20° Glocal Film Festival.
Una maschera. Una divisa. Una canottiera bianca, la “vociaccia” roca, la rabbia in corpo sputata fuori attraverso parole altrettanto ringhiose. Il Senatur parla al “fiume padano”, spesso fa paura eppure incredibilmente e inspiegabilmente ha il suo seguito, rappresentazione della mitopoietica del baretto all’angolo, della cosiddetta “pancia degli italiani” prima che questo concetto fosse ideato, costruito, pensato. Umberto B. – Il Senatur, documentario di Francesco Amato, presente alla ventesima edizione del Glocal Film Festival (dal 11 al 15 marzo 2021) racconta il fondatore della Lega Nord, traccia la sua biografia.
Umberto B. – Il Senatur: il padre del discorso populista, violento e razzista
“Riusciva a comunicare con le masse senza internet”
Si parte dalla fine, dall’oggi. Cantù saluta Matteo Salvini. Lui e le sue magliette. Lui, birra in mano e selfie con i follower – definizione scelta non a caso. Lui, pieno di sé, lui deus ex machina del rinnovamento. Lui, il cui nome troneggia potente e prepotente sul simbolo leghista, non c’è più il partito, l’ideologia, c’è Salvini e la sua Lega. Si parte dalla fine: Bossi ha avuto un malore. E poi la storia del Senatur inizia davvero, da quando un uomo qualunque è diventato un politico, un leader. Bossi ha rotto la forma classica del politico, urla con violenza odio, rabbia, rancore; quelli che sono arrivati dopo non hanno inventato nulla. Il politico dovrebbe essere il migliore, il nobile tutore della res publica, Bossi è il cortocircuito di questo sistema, il cosiddetto “brutto, sporco e cattivo”. Se la cosa pubblica prima era giacca e cravatta, era eleganza e ars oratoria, ora non c’è più spazio per questo. “Roma ladrona” – e poi i ladroni, si è scoperto dopo, erano loro -, “La Lombardia ai lombardi, “Paga somaro lombardo”, il “parla come mangi” più grezzo (pensiamo a Calderoli e Borghezio) sono queste le colonne portanti di un discorso populista, di un’epica banale e semplice dell’uomo che parte dal basso, un sermone “comune”, triviale, di cui la lega si è sempre vantata. Noi siamo il popolo, noi siamo la gente, noi siamo l’Italia.
Amato costruisce di minuto in minuto la figura di Umberto con le parole dette da chi c’era quando tutto è incominciato (Castelli, Maroni, Patelli, ex tesoriere della Lega Nord), con i cimeli raccolti da chi crede/pensa/sa di aver fatto la storia (discorsi scritti a penna, i soldi con l’effige di Umberto, biglietti, manifesti, i ricordi e le parole commosse della Cantamessa, segretaria di Bossi dal 2003 al 2017), con i pensieri dei giornalisti, con gli avversari politici (da D’Alema a Gad Lerner). Come durante una partita di Indovina Chi, Umberto B. presenta la storia del capo della Lega, quello che per primo l’ha fatta arrivare in Parlamento, colui che Paolo Rossi, ex parlamentare Pd, aveva descritto come “un personaggio simpatico, [..] una persona intelligente ma [che] non capisce un cazzo di politica”. Si porta al centro la storia del Senatur, delle sue scelte politiche, delle lotte interne e dei rapporti con gli alleati, e si arriva infine alla caduta, all'”estromissione” per cui Bossi dice “non mi hanno fatto parlare perché parlo troppo bene. Sono invidiosi”.
Umberto B. – Il Senatur: tra maschere e donne
Bossi dice a Margherita Boniver: “Cara Bonassa, stai tranquilla, non prendiamo le armi, noi della Lega, perché siamo già armati.”
È il cantautore che partecipa nel ’61 al Festival di Castrocaro con il nome di Donato, è il figlio di una casalinga e di un corriere e contadino. È il medico condotto che sposa la commessa Gigliola Guidali ma poi viene fuori la verità: non si è mai laureato. È il poeta dialettale, è il politico razzista, populista che incredibilmente ammalia le folle. Un’ideologia povera, un pensiero a tratti quasi elementare rompe gli equilibri della politica abituata, in quegli anni, alla fine intelligenza elitaria di D’Alema, ai pullover in cashmere di Bertinotti, alla destra di Fini, capace di ripulirsi del passato. Ed è comunque diverso per estrazione sociale, per modus operandi, per cultura dall’uomo che per antonomasia si è fatto da solo: Silvio Berlusconi. “Il Bossi” è il “casciaball”, è propenso alla commedia dell’arte, la vantazione e l’iperbole sono la sua massima espressione e nonostante questo si fa maestro di volgarità e di battutacce. Dopo la morte di Bruno Salvadori, giornalista e politico dell’Union Valdôtaine con cui Bossi aveva una comunione di idee (autonomia e federalismo), c’è il desiderio di fare la rivoluzione ma all’inizio mancano le gerarchie, l’organizzazione, c’è solo il disordine. Serve una figura forte, emblematica, un simbolo, chi meglio di Bossi – il 29 maggio 1985 la lega lombarda si presenta alle elezioni amministrative. Lui è la Lega, lui è l’unica corrente, lui e solo lui ma non c’è bisogno di scriverlo sul simbolo.
“La lega ce l’ha duro”
Una delle linee narrative più interessanti anche alla luce degli altri politici che sono venuti prima, durante e dopo, è la rappresentazione della mascolinità: Bossi ha il potere, sono poche le donne leghiste, comanda, decide, per lui le donne sono solo amanti o mogli. Il folklore bossiano parte anche e soprattutto dalla sua immagine, le mani “sul pacco”, il “celodurismo”, la canottiera da medioman, quella del ragionier Fantozzi diventata durante i comizi simbolo di potere, abito-talismano sono chiara espressione di un machismo, un virilismo stanco e superficiale, che ora si cerca di combattere. I militanti, i compagni di partito ricordano tra risa e soddisfazione il fatto che il senatur aveva tante amanti, belle, giovani, che da ragazzino allungava le mani, che probabilmente quando si è sentito male era con qualche donna. Lui non è un adone eppure, come il suo compagno di “scorribande” politiche, amico e nemico di una storia che ormai sembra passata, Berlusconi, riesce a colpire con il suo potere e con il ruolo che rappresenta. I racconti intorno al suo status di amatore attingono alla fonte della mitologia craxiana, di quella berlusconiana, riciclano stilemi triti e ritriti che in questo caso si declinano con la lingua terrigna e alle volte becera della provincia. Entrano nel cerchio magico del senatur in senso politico, Irene Pivetti e “La Rosy Mauro”, chiamata in senso dispregiativo “la badante”, due delle poche donne che riescono ad avere un ruolo perché dimostrano di avere come dice lui “due balle così”.
Il racconto del post malattia
Tutto cambia il 10 marzo 2004. L’ictus celebrale. Quando esce dall’ospedale è l’ombra dell’uomo che il suo elettorato conosceva e aveva conosciuto: una figura trascinata, un corpo trasparente, una voce impastata, parole a tratti incomprensibili. L’ombra dell’urlatore. Il Capo non è più quello di una volta, e inevitabilmente chi era dietro, a poco a poco, prende le prime file: Maroni prima, Salvini poi. Come è capitato a Berlusconi anche Bossi viene messo da parte, chi prima lo idolatrava, lo prendeva ad esempio ora lo mette tra parantesi. Non viene invitato a Pontida, gesto inqualificabile per i suoi sostenitori. Bossi alla fine del documentario entra sulla scena come uomo sofferente che continua nonostante tutto, età, malattie, scandali, a voler esserci- per un certo tempo tenta di riprendersi il partito, tentativo vano. C’è l’idea di una Lega nuova: nessuna Roma è più ladrona, non c’è più l’idea del Sud da cancellare. C’è invece la Lega salviniana meno sincera e ancor più virulenta che si veste di felpe, che ha sulle labbra il nome dei propri figli per intenerire, che tiene il crocifisso in mano alla stregua del lupo vestito da nonna per mangiare Cappuccetto Rosso, e intanto pensa al nuovo nemico da attaccare, schernire in nome dell’Italia e forse, nel prossimo futuro addirittura in nome della tanto vituperata Europa.
Umberto B. – Il Senatur: ascesa e caduta di un politico
Umberto B. racconta l’ascesa e la caduta, l’altare e la polvere del leader. Umberto B. è un bel documentario, capace di tracciare una figura non amata da tutti, a tratti insopportabile, razzista, sessista, quasi spaventosa ma capace anche di trascendere il pensiero politico. Il giudizio sul leader, spinto dall’ideologia di chi guarda, viene sospeso durante la visione, o meglio si storce il naso rispetto a ciò che “l’Umberto” dice, può stridere il modo in cui dipingono il senatur, una sorta di genio e sregolatezza, una divinità padana che fa arrivare alle lacrime la sua segretaria, ma ciò che emerge è la parabola del politico. Amato mostra un tipico malvezzo italiano, quello cioè di rendere un personaggio una “rockstar” e poi l’ultimo degli ultimi; alla fine si prova addirittura vicinanza umana – anche da parte di chi è lontano anni luce dalla Lega e dalla destra – verso un uomo che ha creduto in un progetto ed è rimasto solo.
Umberto B. sarà presentato in occasione del 20° Glocal Film Festival il 13 marzo 2021 alle 19.00.