Tre ciotole: recensione del film con Alba Rohrwacher ed Elio Germano
In Tre ciotole c'è un tocco morbido e sottile, quasi discreto, che sembra voler rappresentano l'elementare semplicità di una favola.
Presentato al Toronto International Film Festival e diretto da Isabel Coixet, Tre ciotole vede protagonisti Alba Rohrwacher ed Elio Germano, ed è scritto dalla stessa Coixet in collaborazione con Enrico Audenino. Tratto dall’omonimo libro di Michela Murgia e in sala dal 9 ottobre 2025 distribuito da Vision Distribution, Tre ciotole vede nel cast anche Silvia D’Amico, Francesco Carril, Galatea Bellugi e Sarita Choudhry. Il film è un dramma tanto elegante quanto brutale, dove incipit e finale si intersecano e scambiano in un turbinio di piccole gioie e grandi dolori, dando vita a un messaggio che sarà difficile da dimenticare.
Oggetti che, circolarmente, acquistano accezioni e sensi che identificano la fine e l’inizio

Tre ciotole sono l’ultimo acquisto che Marta e Antonio fanno insieme, guadagnato con i punti del supermercato sotto casa. Quella sera è anche l’ultima che passeranno insieme. Il film di Isabel Coixet si apre così, con una relazione arrivata alla fine. Marta si ritrova improvvisamente sola, dopo sette anni di convivenza, e il suo malessere si riversa sul cibo, sul proprio lavoro, nel quale continua ad impegnarsi sul tentativo di avere un rapporto normale con la sorella Elisa. Adattamento della raccolta di racconti, dal titolo omonimo, di Michela Murgia, Tre ciotole affronta il tema della malattia con somma dolcezza ed estrema crudezza, un film fatto di silenzi e poche parole, dove i monologhi del personaggio di Marta sono ben costruiti e poetici, ma operano verso una tendenza differente. Non trasmettono quei profondi significati tra le righe, sono dialoghi quotidiani con un interlocutore immaginario che non c’è più, ma al tempo stesso raccontano qualcosa.
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Quello che descrivono è l’importanza del presente, del fare ciò che si vuole e si sente, di liberarsi dagli obblighi che sono spesso sociali, ma che possono essere anche privati e personali. È il concentrarsi su se stessi, su tutto ciò che concerne la connessione umana, quella che si prova in quel preciso momento, che non ha doveri, regole o dettami a cui sottostare. Nella più schietta narrazione c’è la più spietata casualità di un male che, tra cure che prima non funzionano, poi hanno l’effetto sperato, e poi tornare a non funzionare, in un ciclo quasi infinito, c’è tutto quello che nel tempo che resta, di per sé indefinito, avrà invece un termine. Ed è proprio in quel tempo che le rimane che la figura di Marta prende piena consapevolezza di sé, di ciò che per lei è importante, di ciò che per lei è vivere.
Tre ciotole e quelle etichette esplicative che iniziano a stare sempre più strette

Se nelle poche battute che compongono Tre ciotole c’è un tocco morbido e sottile, quasi discreto, che sembra voler rappresentano l’elementare semplicità di una favola, i dialoghi che raccontano un mondo nuovo e una nuova modalità di farne parte, sul finale arrivano e colpiscono. Perché quello di Marta è anche un percorso, un riprendere in mano la propria vita, un liberarsi da quello che credeva di volere o di dover in qualche modo aggiustare. Senza che il giudizio altrui, le convenzioni sociali e le stesse tradizioni di coppia influenzino così tanto le proprie esistenze. Perché alla fine il centro della propria vita siamo noi stessi. I giorni non possono essere fatti di costrizioni, imposizioni o necessità, ciò che piace, davvero, c’è, da qualche parte. Marta si rende così conto di esistere, e lo fa con un Alba Rohrwacher in stato di grazia.
Tre ciotole: valutazione e conclusione

La Marta della Rohrwacher è un personaggio imperfetto, che non è per forza un simbolo di grinta e coraggio, o una figura che non riesce a rialzarsi da un dramma inimmaginabile, ma una persona che si libera di definizioni ed etichette, che si emoziona senza domandarsi cosa significhi, il perché o come sia accaduto, senza pensare al futuro. Quello che è incerto, che non sa neanche se potrà vivere. Un desiderio e un’esigenza che lei ha sempre avuto, ma che venivano scambiati con presunzione e asocialità. Ma sono parte di lei, della sua personalità e non c’è pretesa che tutti lo capiscano. Nell’esplorazione di sé e del proprio diverso trascorrere delle giornate di Marta, si inserisce la regia della Coixet, con una macchina da presa che sembra quasi non essere realmente lì, riuscendo a far entrare lo spettatore in una storia che è racconto, che è l’immagine di un momento dopo l’altro, di sguardi che sanno parlare ed esprimere, e che rivelano un concetto insolito di serenità nell’importanza di vivere il momento.
Nel non impegnarsi, senza remore, verso uno scopo che diventa poi un unico e solo pensiero. Mentre tra le vie e le strade di una Roma che appare anche lei sospesa in un tempo non del tutto chiaro, e per questo ancora più pregnante di fascino e respiro, i vicoli stretti e gli ampi viali di un centro storico fatto di combinazioni di stili ed epoche, vengono ripresi nella loro immensità, facendo anche delle strade più tortuose un universo che si dipana in tutta la sua spaziosa estensione. Sulle note di Sant’Allegria cantata da Ornella Vanoni e Mahmood, insieme ad artisti come Nina Simone, Luigi Tenco e Alfonso De Villalonga, le tre ciotole dell’inizio del film compaiono e ricompaiono, come oggetti della vita di tutti i giorni, usati per contenere alimenti, ma che in realtà sono memorie, istanti che sono solo con noi stessi, dove nessuno può entrare; la sincerità di ciò che non si ha più paura di dire, di pensare, di volere e così di vivere.
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