The Years We Have Been Nowhere: recensione del film

Un documentario che descrive il processo di de-umanizzazione in atto nelle politiche europee di gestione della crisi migratoria.

The Years Whe Have Been Nowhere è un documentario di Lucio Cascavilla e Mauro Piacentini, che esce in sala il 27 settembre 2023.
Il film è stato prodotto, in parte, grazie a una campagna di crowdfunding. Si tratta infatti di un lavoro ad alto impatto sociale, che racconta la storia di vari migranti, rimpatriati con la forza in Africa. Le storie principali sono quelle di Sulemain, Madame Manseray e Patrick. Ciascuno di loro è arrivato in un paese diverso. Il primo in Inghilterra, la seconda in Germania e il terzo negli Usa. Tutti e tre si sono costruiti delle nuove vite e sono divenuti, a tutti gli effetti, cittadini ben integrati nei paesi d’adozione, con dei lavori regolari e delle famiglie. Nonostante ciò, però, non sono mai riusciti a ottenere i documenti necessari per avere il permesso di soggiorno. Così a un certo punto, dopo un numero elevato di anni, si sono trovati deportati nuovamente in Africa. Cioè dopo aver costruito delle nuove esistenze, per sfuggire a guerre e povertà, sono stati rispediti al punto di partenza. Come se non bastasse, in patria, sono diventati oggetto del disprezzo dai loro stessi parenti e amici.

The Years We Have Been Nowhere: un documentario militante

The Years We Have Been Nowhere Cinematographe.it

Il documentario è costruito seguendo una struttura a episodi che si incastrano fra loro. Fa largo uso di interviste e spezzoni di filmati di repertorio, per ricostruire il contesto sociopolitico da cui i migranti sono fuggiti o quello europeo attuale, legato ai centri per il rimpatrio, dentro cui i migranti vengono rinchiusi – da questo punto di vista, per ragioni probabilmente produttive, la sezione statunitense è meno dettagliata. L’afflato militante del lavoro è evidente nel modo in cui gli autori – Cascavilla è un attivista di lungo corso – intrecciano queste drammatiche storie di vite interrotte alle interviste a esponenti di associazioni e Ong, come Sos Mediterranee o NEAS (Network of Ex-Asylum Seekers) che si occupano di aiutare i migranti e i rimpatriati. O meglio, i deportati, come vengono giustamente definiti nel documentario.
Con questo approccio i due autori, pur seguendo i dettami narrativi contemporanei, spingono la forma documentario verso il recupero di un rapporto dialettico con il reale, così da fornire al pubblico le immagini di una realtà troppo spesso nascosta dalla propaganda dei media mainstream. Il cinema documentario si fa cioè vettore di una rappresentazione del reale non conforme all’immaginario dominante. Senza troppi orpelli estetizzanti – per esempio le interviste ai deportati sono girate tutte in esterni, con luce naturale – recuperando il valore della narrazione orale, The Years Whe Have Been Nowhere dà voce a coloro ai quali l’Occidente democratico avrebbe voluto togliere ogni diritto. Il cinema diventa un mezzo in grado di estrapolare, dal flusso di immagini della quotidianità, una realtà altra e brutale che si dipana attraverso i proclami umanitari e il vittimismo da sindrome d’assedio di quell’autorappresentazione della società occidentale, falsata dalla propaganda politica – si pensi a espressioni come “fortezza Europa” e altre stupidaggini simili, per lo più nate in seno alla destra più retriva e oramai diffuse nel linguaggio mediatico comune.

La situazione italiana

Per comprendere meglio quanto sostenuto, prendiamo l’esempio dell’Italia. Negli ultimi mesi la questione dell’immigrazione è tornata sulle prime pagine dei quotidiani, per via di un numero enorme di sbarchi a Lampedusa. Come al solito le opinioni si sono arroccate fra due posizioni falsamente contrapposte. Da un lato c’è chi, non sapendo come gestire la situazione, rilancia la questione della necessità di un maggiore coinvolgimento europeo nella spartizione dei richiedenti asilo e chi vaneggia sulla possibilità di impedire ogni sbarco con dei blocchi navali, rimpatriando anche quanti più migranti possibili. Entrambe le posizioni tendono a trasformare delle individualità umane, con delle storie complesse, in semplici oggetti, in dei pacchi da spedire da qualche altra parte o da rispedire in patria. Peggio ancora queste individualità diventano immagini mediatiche, icone, santini o spauracchi, trasformati, di volta in volta, in oggetti di ipocrita pietà o di irrazionale terrore, su cui costruire consenso elettorale.

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Tali posizioni sono informate a un processo di de-umanizzazione soft, nel primo caso e più duro nel secondo caso. Ma si tratta pur sempre dello stesso processo e ciò risulta palese nel momento in cui una delle due fazioni arriva al potere. Nel caso della posizione soft, incarnata dal PD, nonostante i grandi proclami umanitari, ogni volta che essa è arrivata al governo, ha generato politiche improntate allo stringere accordi con i paesi da cui i migranti si imbarcavano per raggiungere le coste europee. Accordi che prevedevano la corresponsione di soldi a governi come quello libico, in cambio di un loro impegno a tenere i “pacchi” umani dentro i propri confini, o se vogliamo, dentro i propri “depositi postali”, cioè dei campi di prigionia degni dei lager nazisti. Nel caso della posizione dura, rappresentata dalla destra attualmente al governo, la soluzione prospettata è quella di costruire nuovi Cpr – Centri per il rimpatrio – in tutto il territorio, ovvero delle prigioni dalle condizioni di vita disumane, dove rinchiudere persone colpevoli solo di non avere un pezzo di carta, con lo scopo di rispedirle, il prima possibile, nei paesi di partenza, di nuovo come fossero pacchi indesiderati.

The Years We Have Been Nowhere: valutazione e conclusione

Proprio affrontando la questione dei Cpr italiani e intersecandola alle storie di persone che poi effettivamente sono state deportate dai governi di altri paesi europei, The Years Whe Have Been Nowhere offre una lettura della gestione della crisi migratoria, che lega le due posizioni della politica italiana all’esperienza europea. Ne sottolinea così, in modo sottile, la comune radice ideologica de-umanizzante testé descritta. Cascavilla e Piacentini si pongono dunque nel solco di un cinema documetaristico, di parte, cioè militante. Non offrono soluzioni semplici, ma registrano un processo di de-umanizzazione in atto nelle politiche di gestione della crisi migratoria, per prendere una posizione critica netta. I due autori ricordano quindi allo spettatore che il cinema documentario può avere ancora la capacità di affrontare il reale in una maniera attiva e non passiva. Ovvero ci ricordano che l’atto di filmare e raccontare una porzione di realtà non deve per forza essere un’operazione (falsamente) neutrale, ma può, e deve essere prima di tutto un atto ideologico.

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Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 4

3.6