The Ugly Stepsister: recensione del body horror di Emilie Blichfeldt
Una Cenerentola tra horror e bon ton.
Nel sempre più affollato panorama del cinema d’autore europeo, The Ugly Stepsister si distingue per la sua audacia visiva e tematica. Presentato con clamore ai festival di Berlino e Sundance e nelle sale italiane dal 30 ottobre, il film segna il debutto nel lungometraggio di Emilie Blichfeldt, che reinterpreta il mito di Cenerentola in chiave gotico-grottesca, mettendo al centro la sorellastra Elvira. Il risultato è un’opera che flirta con il body horror, l’ironia e il kitsch.
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Elvira sogna una vita da favola e il principe azzurro, ma per conquistarlo deve competere con la sua splendida sorellastra Agnes. In un crescendo di ossessione e dolore, Elvira si sottopone ad interventi chirurgici, infinite sofferenze fisiche e mutilazioni per calzare la scarpetta di vetro, in una rilettura della versione dei fratelli Grimm dove le sorellastre si tagliano i piedi pur di entrare nella scarpa. Il film trasforma questa suggestione in un viaggio disturbante, dove il dolore fisico si intreccia con quello emotivo, in un universo visivo che alterna il sogno decadente alla crudeltà più esplicita.
The Ugly Stepsister : il ribaltamento dei ruoli fiabeschi

Blichfeldt dimostra una visione personale e coraggiosa, ma non sempre pienamente controllata. Il tentativo di creare empatia viscerale con Elvira si perde in una narrazione discontinua, che alterna momenti di intensa tensione a lunghe pause contemplative. L’ispirazione cronenberghiana è evidente, ma il film non riesce mai a essere davvero disturbante: sembra voler provocare, ma si ferma sempre un passo prima del trauma. Il dolore, più che vissuto, è estetizzato.
La scrittura è ambiziosa, ma spesso didascalica. Il ribaltamento dei ruoli fiabeschi è interessante, ma non trova una vera evoluzione. Elvira è vittima o carnefice? La bellezza è tirannia o desiderio? Il film solleva domande importanti, ma non offre risposte, lasciando lo spettatore in una sospensione che risulta più sterile che inquietante. Il finale aperto, che dovrebbe lasciare turbamento, si rivela invece poco efficace, privo di quella tensione che un horror dovrebbe saper costruire.
The Ugly Stepsister : un caleidoscopio di citazioni e contrasti
Visivamente, The Ugly Stepsister è un caleidoscopio di citazioni e contrasti. La fotografia di Marcel Zyskind richiama Marie Antoinette di Sofia Coppola, con i suoi colori pastello, le luci naturali e le atmosfere da sogno decadente. Ma è nei costumi di Manon Rasmussen che il film trova la sua cifra più originale: un mix audace tra gotico ottocentesco e kitsch anni ’60, con silhouette volutamente ridicole, tessuti lucidi, pizzi e dettagli grotteschi che sembrano usciti da un musical acquatico. Ogni abito diventa una dichiarazione di intenti, un commento visivo sulla deformazione del desiderio e sull’ossessione per l’apparenza. Il corpo, mutilato e adornato, è al centro della scena, in un gioco di contrasti che amplifica il senso di disagio.
Firmata da Kaada e Vilde Tuv, la colonna sonora mescola arpe eteree e sintetizzatori con brani pop ironici, creando un’atmosfera straniante che strizza l’occhio a Povere Creature di Lanthimos, ma senza la stessa forza dissacrante. Il commento musicale accompagna la discesa di Elvira nella follia, ma non riesce a incidere emotivamente quanto dovrebbe.
The Ugly Stepsister : la straordinaria performance di Lea Myren

Lea Myren, nel ruolo di Elvira, è la vera rivelazione del film. La sua performance è intensa, fisica, coraggiosa: riesce a incarnare la fragilità e la follia con una naturalezza disarmante. Il resto del cast, pur solido, fatica a emergere. I personaggi secondari restano abbozzati, archetipi più che individui. Agnes, interpretata da Thea Sofie Loch Næss, è una presenza magnetica ma poco esplorata, quasi un’ombra che incombe più che un personaggio a tutto tondo.
The Ugly Stepsister : valutazione e conclusione
The Ugly Stepsister è un esperimento visivo molto affascinante, ma narrativamente debole. Il body horror è più estetico che disturbante, la critica alla bellezza femminile resta in superficie, e il finale aperto non lascia né turbamento né riflessione. Un film che vuole essere sovversivo, ma si perde tra citazioni, ambiguità e un’estetica che, pur brillante, non riesce a sostenere il peso delle sue ambizioni. In definitiva, una scarpetta che non calza.