The Assassin: recensione del film di Hou Hsiao-hsien

Dopo 8 anni di silenzio, Hou Hsiao-hsien torna a cavalcare le scene con The Assassin, la Miglior Regia alla 68esima edizione del Festival di Cannes del 2015

Non si poteva immaginare ritorno più fragoroso per Hou Hsiao-hsien, che dopo otto lunghi anni di silenzio torna a cavalcare le scene con The Assassin, opera tanto folgorante e potente quanto rarefatta: insignito del premio per la Miglior Regia alla 68esima edizione del Festival di Cannes del 2015, The Assassin prende le mosse nella Cina imperiale del IX secolo, una Cina agitata dagli imprevedibili movimenti delle piccole province che auspicano l’emancipazione e la libertà dal governo centrale.

È in questo contesto che troviamo Nie yinniang (la sublime Shu Qi), giovane donna alla quale la sua maestra, una suora esperta di arti marziali, ha commissionato un arduo compito: si tratta dell’uccisione di Tian J’ian (Chen Chang), cugino della giovane assassina con cui ella ha condiviso l’infanzia prima di esserne separata per sempre. Per Tian J’ian, Nie yinniang nutre un amore profondo che costituisce, sicuramente più delle sue abilità nella propria professione (che non le sono d’ostacolo in alcun modo), il vero intralcio nella sua missione.

The Assassin si focalizza sull’impossibilità di  prestare fedeltà a un giuramento che tradisce i sentimenti, e sull’urgente necessità di spezzare il giuramento a costo di tornare nell’esilio

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Tutta la vicenda narrata, con estrema eleganza, dal cineasta taiwanese s’impernia proprio qui: sull’impossibilità di continuare a prestare fedeltà a un giuramento che tradisce i sentimenti – sentimenti che sono quieti e raccolti, repressi nella loro percepibile grandezza, ingoiati nel silenzio – e, quindi, sull’urgente necessità di spezzare il giuramento, a costo di macchiare il proprio onore e tornare nell’esilio da cui si era riusciti, una volta, a riemergere.

Hou Siao-hsien sfrutta ancora l’irrinunciabile apporto di Mark Lee Ping Bin, ingegnoso direttore della fotografia con cui ha un prolifico rapporto di creazione sin dagli anni ’80, e comincia a raccontare il suo primo wuxiapian (il wuxià è l’eroe marziale dei “cappa e spada” orientali) tramite spoglie e semplificate immagini in bianco e nero che richiamano l’arte del disegno orientale, quella delle stampe in carboncini neri.

Immagini che, però, sono mutevoli e che quindi, una volta slittato il tempo del racconto al presente (o, meglio, a un passato meno remoto), possono virare al colore e al formato Cinemascope, regalando scenari di paesaggi naturali di monumentale bellezza, sequenze action in rallenty che, proprio perché centellinate, riescono ad avvalersi di maggior forza.

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Hou Siao-hsien sfrutta ancora l’irrinunciabile apporto di Mark Lee Ping Bin, ingegnoso direttore della fotografia con cui ha un prolifico rapporto di creazione

Ed ecco, poi, che gli interni si tingono dei rossi della seta, dell’oro dei ricami e dei drappeggi, e vengono trafitti dagli spiragli delle luci lattiginose, auree e ambra, che provengono dagli esterni, di cui rimangono impresse distese ora bionde, ora verdeggianti, e i rami che coprono parzialmente la visuale e si fanno contorni stessi dell’inquadratura.

E in questa meravigliosa e asciutta, sommessa, intima e inaspettata rivisitazione di un genere dato per stantio e inamovibile, non si può dimenticare in alcun modo l’assassina vestita di nero che, sì, fronteggia il governatore da uccidere, oggetto del proprio amore, ma mai per ferirlo; eroina di dolorosa bellezza, dama imperturbabile che patisce sulla pelle il dolore dato dalla rinuncia scelta – la rinuncia al proprio dovere – per non acconsentire il sacrificio di qualcos’altro, di qualcosa che è più importante.

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Regia - 5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4.5
Recitazione - 4
Sonoro - 4.5
Emozione - 4.5

4.4