Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso: recensione del film di Kohei Igarashi
Il terzo lungometraggio di Kohei Igarashi, è una riflessione metatestuale sulle potenzialità del cinema.
A un anno dalla sua proiezione alle Giornate degli Autori 2024, arriva in sala, il 25 settembre 2025, Super Happy Forever – La ragazza dal cappello rosso di Kohei Igarashi.
Sano, accompagnato dall’amico Miyata, torna nel resort della penisola di Izu, dove aveva conosciuto la moglie Nagi, morta da qualche giorno. Nel tentativo di superare il lutto, si mette alla ricerca di un cappellino rosso regalato alla moglie durante il loro primo appuntamento, ma che lei aveva subito perduto. Nel frattempo Miyata frequenta un seminario di self-help dal titolo Super Happy Forever.
Elaborare il lutto attraverso il fluire circolare della memoria/cinema

Igarashi costruisce un film sull’elaborazione del lutto a partire da alcuni versi, citati nei dialoghi, del poeta buddhista Kamo no Chōmei, che si riferiscono al concetto del fluire del tutto. La vita è paragonata alle acque di un fiume che scorre incessantemente, mentre la durata delle vite umane equivale a quella delle bolle che si formano e scoppiano in pochi secondi. Dalla prospettiva di chi ricerca l’essenza dell’esistenza, dunque, persino il dolore per la morte della persona amata appare come una sensazione fuggevole, destinata a svanire nel vuoto. La vita continua a scorrere incessantemente, gettando chi è ancora vivo in nuovi stati dell’esistenza, finché anch’esso non svanirà nel nulla: non ha senso aggrapparsi al dolore e struggersi nel ricordo di qualcosa che non esiste più. Eppure questo è quello che accade a Sano, il quale si chiude in un ossessivo ripercorrere i luoghi della nascita dell’amore. Il protagonista sembra attraversare le fasi di negazione, rabbia, contrattazione e depressione tipiche dell’elaborazione del lutto, ma non riesce mai ad arrivare alla fase di accettazione. Vive in un mondo fantasmatico, dove la possibilità di ritrovare il cappellino rosso coincide con quella di ritrovare il fantasma di un amore forse mai vissuto davvero fino in fondo. Infatti per sua stessa ammissione, Sano non è stato un marito ideale e, ancora adesso, non fa altro che sovrapporre l’idea di una felicità impossibile al ricordo della donna amata. In tutta la prima parte del film Nagi è infatti immagine fantasmatica, non tanto perché morta e rievocata attraverso il ricordo, ma piuttosto perché essa (non) appare icona irrappresentabile, resa idea astratta – privata di una reale identità – dal marito.

A correggere questa situazione però interviene il dispositivo filmico stesso. A metà film, tramite una semplice carrellata laterale sulle porte del resort, il regista ci riporta indietro nel tempo e ci narra il primo incontro fra Nagi e Sano, dal punto di vista della donna. Quest’ultima, finalmente, non solo assume un’identità e un volto, ma diventa protagonista della propria storia. Con questo artificio narrativo Igarashi pone al centro della narrazione il mezzo-cinema. La sua capacità, cioè, di essere qualcosa di più di una semplice macchina per registrare fatti. Il cinema è, nella visione del regista, un modo per riconfigurare quel fiume dell’esistenza descritto da Kamo no Chōmei. Un modo, cioè, per invertire il flusso della memoria e trasformare quello che era uno scorrere rettilineo in un fluire circolare, dove tempo e spazio diventano uno funzione dell’altro e permettono la coesistenza di più stadi della vita contemporaneamente. Le bolle non sono, insomma, destinate a sparire nel vuoto, ma a rinascere sempre uguali. Il cinema diventa dispositivo/memoria dell’animo umano, che grazie alla sua capacità di rendere attuale ciò che sembrava perduto nel tempo, permette allo spettatore di conoscere quel fluire incessante della vita, inaccessibile per Sano. Il film si chiude, così, con il cappellino rosso che passa a un’altra proprietaria, cioè si apre alla possibilità di una nuova storia da raccontare e dunque a un nuovo stadio dell’esistenza.
Super Happy Forever. Valutazione e conclusioni
Il valore metafilmico della pellicola di Igarashi, infine, traspare anche da alcune scelte estetiche, come quella di usare, come location, la città di Atami. Qui si svolge il primo incontro fra Sano, Nagi e Miyata e il mare di Atami è lo stesso filmato da Ozu in una scena di Viaggio a Tokyo (1953), film fondante del cinema nipponico, che ha contribuito a riscrivere l’identità culturale giapponese dopo la seconda guerra mondiale. O ancora si pensi alla presenza della canzone Beyond the sea, usata in varie pellicole hollywoodiane – Quei bravi ragazzi (Scorsese, 1990), su tutte – e che al pari di un classico come Over the rainbow, ha assunto una sorta di valore di segno cinematografico per eccellenza. Non a caso il regista fa, della canzone in questione, una caratteristica precipua proprio del personaggio vettore di un nuovo inizio (un futuro nuovo film?).

Super Happy Forever, in quest’ottica, risulta dunque interessante, soprattutto per la sua capacità di farsi leggere come riflessione metatestuale su un cinema latore di una percezione più profonda dell’esistenza e della condizione umana.