Biografilm 2020 – Self Portrait: recensione del film
Un'esperienza incredibile, drammatica e commovente.
Un corpo dolente, ridotto ai minimi termini. Un coacervo di ossa, una tragica magrezza quasi cristologica. Lei è Lene Marie Fossen, una giovane donna, una fotografa poetica e malinconica, capace di tirare fuori con la sua macchina fotografica l’anima delle persone e delle cose, anoressica dai 10 anni ai 33 età in cui è morta; è lei la protagonista del documentario Self Portrait (Selvportrett) di Katja Hogset, Margreth Olin, Espen Wallin, in programma al Biografilm 2020, documentario vincitore del premio del pubblico.
Self Portrait: Lene, una grande fotografa rimasta nel corpo di una bambina
Una voce over, quella di Lene, si apre subito a noi, lo dice senza paure: teme il tempo che passa, ha paura di crescere e di dimenticarsi di quella bambina che ha incominciato a non mangiare all’età di 10 anni. Quasi per un gioco tragico la sua malattia la blocca lì, non crescerà mai, non avrà mai il suo primo ciclo, non entrerà mai nella pubertà e il suo corpo subirà danni irreversibili a causa della malnutrizione. All’inizio del documentario lei ha 28 anni – la Morte se la porterà via a 33 anni –, ha un corpo minuscolo, un viso consumato dalla malattia, un’ingenuità tenera e dolorosa che colpisce e ferisce ad ogni suo passo. Self Portrait è un ritratto dolce e struggente che si compone di minuto in minuto, grazie all’occhio dei registi che oltre a far parlare direttamente la protagonista, utilizzano le interviste fatte ai genitori, il materiale di repertorio, i ricordi di chi ha avuto il piacere e l’onore di conoscerla.
Si entra così in punta di piedi nella vita di Lene, ripercorrendo con delicatezza le fasi della malattia, seguendo la sua lotta ma anche ammirando il suo inequivocabile e commovente talento. Il documentario è un’esperienza incredibile, drammatico e commovente: c’è tutta Lene in quei minuti, il suo calvario, l’incapacità di tornare indietro (“Se solo fosse possibile schioccare le dita e ricominciare a mangiare“), il suo amore per la famiglia e quello per l’arte. Quando lei e sua madre hanno un incidente in automobile e le fa talmente male il collo da non riuscire a tenere la sua macchina fotografica in mano, soffre, si addolora e si sente in trappola. Mentre fotografa, scopre il mondo, si autoimpressiona sulla pellicola, fa la sua prima mostra, lo spettatore inizia a entrare in confidenza con l’immagine, con una storia difficile, complessa, che non fa sconti e che ci interpella – inevitabilmente ci si interroga su che cosa avremmo potuto fare noi per lei, su cosa ci sia dentro uno strazio come quello provato da Lene.
Self Portrait: dai ritratti al racconto del proprio corpo
La sua macchina fotografica rappresenta il mezzo attraverso il quale l’artista guarda il mondo: gli uomini, le donne, giovani o anziani, colti nella propria casa o per strada, i bambini che lei ben conosce essendo ancora aggrappata a quell’età, a quell’ingenuità e a quello sguardo puro. Lene però è ormai ingabbiata in un percorso di autodistruzione, lei non vuole vivere ma non vuole neppure morire, spera di poter fotografare, fotografare ancora ma non riesce a ritornare alla normalità.
Il proprio corpo è ormai ridotto pelle e ossa e per raccontarlo l’artista fa passare tutto attraverso la sua macchina fotografica. Se in un primo momento la vediamo ritrarre gli altri, in un secondo momento, rappresenta se stessa, si mostra e diventa così rappresentazione della propria lotta contro di sé. Lene non è la sua malattia pur mettendola al centro di tutto, si trasforma allora in osservazione della malattia, vista attraverso a un occhio fotografico che permette un cambio di prospettiva e dunque una rivoluzione della percezione di sé.
Da un edificio in macerie Lena mostra il suo corpo in “macerie”, è l’unica possibilità per esistere e anche per raccontarsi, così è possibile per lei fermare il tempo, raccontare la propria interpretazione del mondo. Durante la sua prima, vera, importante mostra dove vengono scelte solo quelle fotografie autortitratto in cui lei si presenta in tutta la sua nuda essenza, disperata costruzione ossea, concrezione di sofferenza autodistruttiva. Lo spettatore è il frequentatore di quella mostra che si commuove, che rimane sconvolto dalla grandezza di quella minuta artista dall’anima sensibile, che resta a bocca aperta e che si complimenta con lei.
Sempre al suo fianco ci sono i suoi genitori, sopratutto la madre che è vicino a Lene, mentre lavora, durante le crisi in ospedale; tutta la dolcezza e la disperazione di questa donna sta nello sguardo, nelle attenzioni, numerose ma consapevoli dell’impossibilità di salvare la figlia, ormai in caduta libera verso l’autodistruzione.
Self Portrait: un’opera che tocca nel profondo
Self Portrait è un’opera che tocca nel profondo: fino ad un certo punto è quasi impossibile guardare Lene perché è intollerabile per lo spettatore assistere alla sua sottigliezza, alla distruzione di questa fotografa geniale che sa raccontare e raccontarsi che gioca con le luci e con le ombre. Il corpo è posto al centro proprio quel corpo da lei tanto bistrattato e odiato: lei c’è, si presenta e diventa di minuto in minuto una gigantessa che rompe la quarta parete e arriva da noi, a noi. Le immagini fotografiche, le parole, la presenza in video della stessa protagonista fanno si che lo spettatore si possa avvicinare a Lene e al suo dramma, sempre presente nel suo sguardo malinconico, nella sua voce tremante, nel suo sorriso timido e delicato, nella imponente presenza di un corpo dilaniato. Self Portrait non giudica e non fa di Lena la sua malattia, ma ne dimostra il calvario con delicatezza e pudore, partecipando al dolore derivante dall’anoressia che l’ha colpita. Il documentario è un interessante racconto su un tema fondamentale, legato al corpo, sulle contraddizioni umane e sulla capacità dell’arte di mettere in contatto la giovane con il suo io più profondo, con il mondo e con la vita. Lene è riuscita proprio grazie all’arte, nuda, onesta, diretta ma anche metaforica, ad andare avanti ma ad un certo punto il corpo non ha retto. Alla fine ci si porta dentro la vita di Lene, la sua tragedia e il talento per cui ha vissuto.