Run: recensione del film horror con Sarah Paulson

La recensione di Run, il nuovo film horror con Sarah Paulson e Kiera Allen, secondo lungometraggio del regista Aneesh Chaganty.

Nel corso degli anni, l’amore viscerale che solitamente lega una madre ai propri figli è stato raccontato in tutte le salse sul grande schermo. Diversi sono stati poi i film che hanno sottolineato quanto questo sentimento non sia per forza da ricollegare ad un legame biologico tra le due parti. Run, il nuovo film di Aneesh Chaganty, descrive questo tipo di rapporto in ben altra maniera, condendo il tutto con una follia che strizza l’occhio a tutti gli amanti del genere horror che avranno l’opportunità di godersi la nuova opera del regista di origini indiane a partire dal 10 giugno.

Sarah Paulson e Kiera Allen brillano nell’oscurità di Run

Run - Cinematographe.it

Photo Credit: Allen Fraser.

Un legame, quello tra genitori e figli, che Chaganty torna a raccontare dopo averlo già fatto con Searching, il suo primo lungometraggio uscito nel 2018. Questa nuova opera non descrive alcun “bacio del vero amore” ma mostra fino a che punto sarebbe disposta a spingersi una donna pur di soddisfare il proprio desiderio di maternità e sfuggire così al vuoto ed il senso di solitudine che si porta dentro. Per riuscirci al meglio, Chaganty si affida all’esperienza di Sarah Paulson, attrice in costante ascesa che in Run dimostra ancora una volta la propria capacità di dare il meglio di sé nel genere drammatico e di risultare totalmente magnetica. Sarah Paulson continua a consacrarsi, dimostrando ancora una volta di avere ampi margini di crescita e di poter ricoprire un ruolo sempre più di rilievo in questa sfera cinematografica. Dopo i consensi ottenuti con Ratched e quelli più recenti che sono arrivati e continueranno ad arrivare grazie alla sua performance in Run, sembrano più lontani che mai i tempi in cui l’attrice americana rappresentava quasi esclusivamente la “musa” di Ryan Murphy, indipendentemente dal genere cinematografico: è infatti cresciuta sotto ogni aspetto, dal talento alla popolarità, ed è quindi pronta a volare da sola, reggendo un intero film sulle proprie spalle, dopo una carriera trascorsa perlopiù a brillare di luce riflessa. Per quanto riguarda la sua co-protagonista, l’esordiente Kiera Allen, riesce nell’impresa di trasmettere al pubblico il dramma vissuto dalla giovane Chloe, senza rimanere schiacciata dal talento della sua partner di set. La sua performance risulta ancora più avvincente se si pensa che la stessa Allen utilizzi la sedia a rotelle nella vita reale e questo aggiunge autenticità alle scene in cui Chloe deve escogitare piani ingegnosi per fuggire da Diane.

Diane è una donna che reagisce ad una dolorosa perdita dedicando anima e cuore a sua figlia Chloe, un’adolescente disabile sulla quale riversa tutta la sua idea più che contorta di amore materno. Il pubblico non deve fare i conti con troppi preamboli ma si ritrova sin da subito ad insospettirsi dei motivi per cui Chloe è tenuta in totale isolamento da sua madre. Gli spettatori vengono subito catapultati nella routine delle due donne, decisamente diversa da quella a cui la maggior parte delle persone è abituata nel 2021, caratterizzata cioè perlopiù da social, TV, smartphone e quotidiani contatti con l’esterno. Chloe e Diane vivono infatti isolate da tutti e, nonostante i suoi 17 anni, Chloe non sembra condividere alcun desiderio con i suoi coetanei, se non quello di andare al college dopo 17 anni di homeschooling. Tanti piccoli aspetti della loro quotidianità risultano quindi un po’ troppo forzati, messi lì con l’unico intento di rendere credibile la storia, rischiando a volte di ottenere l’effetto contrario e di dare vita a sequenze addirittura comiche, che però non scalfiscono troppo il fascino del film.

Run, quando il limite tra egoismo e altruismo diventa impercettibile

Run - Cinematographe.it

Photo Credit: Allen Fraser.

Run non ti illude mai che le cose vadano bene. La calma apparente che regna nella vita delle due lascia ben presto spazio ad una drammatica escalation di eventi e mostra senza troppi fronzoli l’instabilità emotiva di una donna che si ritrova ad affrontare il peggiore dei drammi ma pecca di egoismo e mette un’altra coppia nelle condizioni di vivere lo stesso incubo dal quale lei è fuggita dando vita ad un piano folle ed irrazionale, che è stata comunque in grado di gestire per ben 17 anni. Una storia che non risulta troppo lontana dalla realtà, considerati i numerosi fatti di cronaca riguardanti i minori scomparsi ai quali siamo ormai tristemente abituati.

Diane sente di dover salvare una bambina ma non si capisce da cosa se non da se stessa. Risulta incapace di dialogare con sua figlia per far valere in qualche modo le proprie scelte, trascorrendo invece troppo ad autocompiacersi per il suo piano diabolicamente perfetto. Quando però il suo castello di bugie inizia a mostrare importanti crepe, la donna risulta incapace di mantenere la calma e nel tentativo di rattoppare i danni finisce per peggiorare la situazione, prendendo decisioni troppo insensate per una maniaca del controllo come lei, che finiscono per servire a Chloe la verità su un vassoio d’argento. Per quanto riguarda Chloe, basta un campanello d’allarme per dubitare di sua madre, come se in fondo non si fosse mai fidata realmente di lei. La forza che non ha nelle gambe viene compensata da quella che ha nella testa e nel cuore, dalla tenacia che la porta a rimanere aggrappata alla vita e alla dignità con le unghie e con i denti. Run contrappone così la debolezza di una donna adulta, a cui la vita ha donato bellezza e salute, alla forza e la determinazione di una ragazza che invece si ritrova da sempre a fare i conti con un gran numero di problematiche motorie.

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Il film vuole altresì sottolineare quanto spesso sia sottile ed impercettibile il limite che distingue l’altruismo dall’egoismo. In questo caso viene infatti descritta una donna che costringe qualcun altro ad aver bisogno di lei solo per colmare il proprio senso di inadeguatezza e sentirsi utile ed importante per qualcuno. Per quanto riguarda il “prigioniero”, il desiderio di libertà ed indipendenza prevale sulla cosiddetta Sindrome di Stoccolma. Il fatto che ci sia una persona disabile che dipende da un’altra, che a sua volta la costringe ad una prigionia forzata, fa venire in mente due perle cinematografiche del passato come Misery non deve morire e Che fine ha fatto Baby Jane?. Del film con Kathy Bates riprende soprattutto la morbosità che lega la padrona di casa alla sua “vittima”, mentre del secondo richiama i tentativi costanti e miseramente falliti del prigioniero di mettersi in contatto con l’esterno, nonché il legame famigliare tra le due parti. La musica, curata da Torin Borrowdale,  ha un ruolo fondamentale in Run. Violini stridenti come lame scandiscono il passare dei giorni ed il crescente livello di angoscia e terrore che attanaglia Chloe, rendendo ancora più avvincente la visione del film fino all’epilogo finale.

Aneesh Chaganty, un talento da tenere d’occhio

Run - Cinematographe.it

In definitiva, Run rappresenta un’opera da vedere, consigliabile agli amanti dell’horror e più in generale a coloro che amano fare i conti con un buon carico di suspense durante la visione di un film che in questo caso risulta più che scorrevole. L’importante è guardare il film giudicando meno i singoli dettagli e dando più peso all’insieme, prendendolo per ciò che è, ovvero un film alla cui base c’è una storia interessante ed una chiave di lettura di tanti drammi in uno, dall’elaborazione di un lutto alla disabilità. Dopo l’innovativo Searching, Aneesh Chaganty fa un salto di qualità perché guardando Run sei così convinto di quale sarà la rivelazione del film che ti dimentichi di pensare alle numerose altre svolte oscure che prenderà, scena dopo scena. Potrebbe non avere l’innovazione di Searching, ma è altrettanto avvincente e conferma il fatto che Chaganty rappresenti un talento da tenere d’occhio.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Sonoro - 4
Recitazione - 4
Emozione - 3

3.5