TSFF 2021 – Rose: A Love Story – recensione del film di Jennifer Sheridan

Un film che riesce a mixare perfettamente alcuni elementi tipici dell'horror con l'ordinarietà straordinaria di un rapporto affettuosamente banale.

Un uomo e una donna, una coppia. Vivono lontani dal mondo, in una casa, nel profondo del bosco, coltivando e mangiando i frutti della terra. Una dimora che funziona con un minimo di elettricità, fruendo principalmente di una romantica luce soffusa di candele. Jennifer Sheridan racconta di Rose (Sophie Rundle) e Sam (Matt Stokoe, che ha anche scritto la sceneggiatura), del loro amore struggente e profondo e dell’isolamento a causa di una misteriosa malattia che li ha costretti a nascondersi in quell’oscurità; è questo Rose: A Love Story l’ interessante debutto alla regia di Sheridan, in concorso al Trieste Science+Fiction Festival (23 ottobre-3 novembre 2021) per il premio Méliès.

Una storia d’amore e di malattia

Rose A Love Story_Cinematographe.it

Fuori da tutto, dalla civiltà, dal mondo, dalla luce, sommersi e immersi in una coltre di neve, freddo e oscurità, passano le giornate così Rose e Sam, innamorati più che mai. Lei attende, di fronte alla macchina da scrivere, Sam che lascia la casa per lavorare e trovare cibo (solo per sé però) e benzina. Quella di Sam e Rose è una danza cauta e premurosa di lui intorno a lei e di lei verso di lui, sempre pronta a farlo ragionare, a calmarlo, a volerlo lasciar libero da quel vincolo e dalla sua malattia. C’è qualcosa che stride però, che esce dallo spartito in questa loro normale quotidianità, la donna mostra sul suo corpo i segni di un morbo devastante che la distrugge e la possibile trasformazione se non controllata: pelle diafana, ridotta all’osso, “dieta” particolare che esclude tutto ciò che il marito mangia, grugniti e “gorgheggi” bestiali nella colonna sonora della loro storia d’amore. Rose: A Love Story si costruisce come una storia d’amore e un horror assurdo, si concentra sulla relazione intima tra i due protagonisti, sul loro cercarsi, sulla protezione e cura di lui verso di lei che a sua volta gli dona dolcezza e tenerezza in ogni sguardo, in ogni carezza, in ogni amplesso fatto a luci spente perché non vuole che veda il suo corpo segnato. Il loro rapporto si concentra sulle fragili minuzie dell’esistenza di questa coppia ma si sostanzia anche di molte altre sfumature: il rigido regime di regole che Sam mette in atto per aiutare e proteggere la compagna, chiavistello alla porta, luce sempre “funerea”. Per lei quella è la condizione ottimale: hanno costruito un ecosistema fatto di finestre sigillate, luci UV in cui Rose indossa una maschera chirurgica sul viso ogni volta che è esposta a qualcosa dall’esterno – qualcosa che sembra stranamente familiare. I due cenano come qualunque altro uomo e donna, nonostante la sete di sangue che smangia Rose, nonostante i rituali inquietanti che segnano le loro giornate: Sam che si applica le sanguisughe alle cosce, la “caccia” tra trappole e fucile, la moglie rinchiusa in casa ogni volta che lui esce, che si ciba di un liquido denso rosso dal sapore metallico desiderato dalla figura folcloristica più amata del mondo, il vampiro.

Sheridan riesce a mixare perfettamente alcuni elementi tipici dell’horror – pur non essendo un horror in senso tradizionale, si può dire che si tratta quasi di un post horror perché la concentrazione va sul modo in cui questa coppia affronta la realtà e le sue conseguenze – con la pacata, affettuosa banalità di un rapporto che è tutt’altro che ordinario: Rundle e Stokoe, coppia anche nella vita reale, hanno un’alchimia naturale insieme e i loro personaggi traggono giovamento da ciò. le vite di Rose e Sam sono cambiate in modo abbastanza orribile e il film mostra come affrontano la realtà e le conseguenze di ciò che accade di solito nei film horror – un post-horror, se vuoi.

Un equilibrio instabile pronto a crollare

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Quando il fuori, in un modo o nell’altro, entra dentro a quelle quattro mura tutto si complica, il loro rapporto, la loro ritualità, quel castello da favola nera in cui un “principe” deve salvare – da sé stessa e dagli altri – la “principessa” in pericolo. Il precario equilibrio della loro vita insieme rischia di crollare. L’estraneo incrina ogni cosa e ribalta ogni tipo di regola, da una parte Rose buona e disponibile, pronta ad aiutare chi è in difficoltà, dall’altra parte Sam ombroso e scuro, rabbioso e brusco come quei personaggi delle favole che mordono per proteggere chi amano. Chi dovrebbe essere la cattiva appare come la buona, chi è il personaggio all’interno della norma appare come la persona di cui temere. La tensione che prima era presente nell’atmosfera, nell’ambientazione – gli enormi alberi che incombono, il freddo, il buio, le notti spaventosamente “rumorose”  -, nella stranezza della vita dei due, nel loro modus vivendi monta sempre più e la suspense fa si che lo spettatore si interroghi su cosa succederà e su chi avrà la peggio. A montare è anche la malattia di Rose, pronta a fagocitarla sempre di più, la sua umanità si perde sempre più facilmente in favore di un aspetto bestiale. La malattia è come un colpo di piccone tra Sam e Rose: lei è convinta di essere un limite, un macigno, la rovina della vita dell’altro e lui dal canto suo ha un solo bisogno, averla vicino.

Rose: A Love Story. Un film che arriva ad una scena finale inquietante e tesa

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Rose: A Love Story è una storia lenta e inesorabile fino ad arrivare al finale inquietante e teso che ha sia i tradizionali elementi tipici dell’orrore sia un finale aperto e mozzafiato. È un film meravigliosamente ambiguo grazie alla sceneggiatura originale di Stokoe, grazie alla passione che trasuda dalla pagina e che arriva anche dalla/alla regia di Sheridan. Il film si concentra sull’idea/sulla paura di essere consumati e controllati da un qualcosa di sconosciuto che divide e distrugge, che smangia e divora, sull’amore che dà forma alle cose, Rose: A Love Story inevitabilmente si chiede fino a che punto possa arrivare il sentimento.

Il punto più interessante dell’opera di Sheridan è il racconto dell’umanità dei protagonisti che vengono perfettamente interpretati da Rundle e Stokoe. La prima infonde in Rose una tenerezza complessa e affascinante, data anche dal suo aspetto in perfetta sintonia con il suo nome, che nasconde l’oscurità e il tumulto che ardono sotto la pelle. Il secondo incarna benissimo la devozione di un marito totalmente votato alla moglie, la figura quasi epica di un “guerriero” anche brutale e di una virilità esasperata che costruisce la sua vita su chi ama.

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Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.8