TSPLUSF: REMEMORY – recensione del film con Peter Dinklage

La recensione di REMEMORY, il film con Peter Dinklage, l'attore noto per Il Trono di Spade, presentato al Trieste Science + Fiction Festival

Da diverso tempo il geniale inventore Gordon Dunn (Martin Donovan) è uno degli uomini più seguiti e popolari del pianeta. Dunn ha infatti creato un’apparecchio in grado di recuperare e registrare i nostri ricordi, anche quelli che pensavamo di aver perduto, quelli che avevamo rimosso. Attorno alla sua ultima invenzione si è scatenata un’attesa che ha dell’incredibile, anche per le possibili conseguenze economiche e culturali che la commercializzazione di tale invenzione comporterebbe. Peccato però che tra le varie “cavie” del Dottor Dunn, molte non vivano assolutamente in modo positivo l’aver ricordato alcuni eventi o l’averli messi in piazza. Quando Dunn viene trovato morto in circostanze misteriose, toccherà al solitario ed anonimo Sam Bloom (Peter Dinklage) cercare di capire chi o cosa si nasconde dietro la morte di un uomo capace di fare del Rememory, del Ricordare, una vera e propria ragione di vita.

Diretto dal canadese Mark Palansky e presentato all’inizio di quest’anno al Sundance Film Festival, Rememory è un film di difficile definizione, dal momento che è a metà tra il giallo, l’esistenzialista e ha una denotazione fantascientifica presente ma molto sfumata, che propone un mondo non particolarmente differente dal nostro. La narrazione e la fruizione sono altamente condizionate dalla fotografia di Gregory Middleton e dalle musiche di Gregory Tipi, che guidano il nostro sguardo in un universo familiare e allo stesso tempo sconosciuto. Rememory infatti ci fa muovere in un mondo grigio, opaco, senza luce o cieli aperti, assediato da una freddezza che compenetra abiti, case, paesaggi, persino i nostri sentimenti. Il tutto genere un iter dalle atmosfere incerte, tristi, quasi claustrofobiche e sempre in bilico tra naturalismo e simbolismo cinematografici.

Il film di Palansky fa muovere lo spettatore in un labirinto tra passato e presente, scegliendo un ritmo dolente, né lento né veloce, piuttosto sincopato, sempre in bilico tra passato e presente, autunnale ma non facilmente definibile per le emozioni che suscita (o che voleva creare sullo schermo). Protagonista uno straordinario Peter Dinklage, che fa del suo Bloom una sorta di epigono cinematografico di Harrison Ford, antieroico e umanissimo, poco portato naturalmente per l’avventura ma capace di tirare fuori una determinazione di ferro di fronte agli ostacoli. Il resto del cast comprende una struggente Julia Ormond, il compianto Anton Yelchin ed Evelyne Brochu, tutti molto ben calibrati nel dare ai loro personaggi sfumature e personalità differenti, tutti portatori di un diverso modo di vedere un Dunn sublimato dal tono dimesso ed umanissimo di un Donovan in stato di grazia.

E in fin dei conti proprio il personaggio di Gordon Dunn assurge a portatore di molteplici significati, si fa ambasciatore della certezza che le migliori intenzioni spesso producono i peggiori risultati, che non tutto può essere fatto o creato solo perché lo si può fare, che la scienza senza empatia e altruismo è di una pericolosità immensa. Rememory tiene fede al proprio titolo, parlandoci di quell’angoscioso stagno che sono i ricordi umani, di quanto siamo sempre più portati a concentrarci sul passato per sfuggire ad un presente che non riusciamo a dominare e a plasmare. Sopratutto ci mostra quanto l’eccesso di severità verso sé stessi, insito nell’autoreferenzialità dei tempi moderni, ci porti a vedere spesso tutto come un’occasione persa, ogni errore come una tragedia, ogni sbaglio come una catastrofe e non piuttosto come parte di quella normalità chiamata vita.

Perché appare chiaro ormai, che in una società che ci richiede di essere vincenti, perfetti, sicuri di noi, senza macchia e migliori di chi ci circonda, ciò che ci sta alle spalle spesso rischia di rovinare tutto, affossandoci con i suoi sbagli e tenendoci imprigionati usando quella felicità che Rememory ci mostra come un mito, un miraggio…

Perché in fin dei conti, questo film atipico e struggente, è un film che parla anche del senso di colpa, dell’importanza di dimenticare ciò che ci può distruggere, o perlomeno di accettare il nostro passato. I ricordi contano? Si. Ma solo se usati in modo costruttivo, perché altrimenti sono sabbie mobili allucinanti e potentissime, sopratutto quando legate ad un presente poco soddisfacente, dove ogni piccolo errore o crepa enfatizza la sensazione di aver sbagliato non solo qualcosa ma tutto, dove la felicità è sempre coniugato al tempo passato, mai al futuro.

Coerente e pieno di momenti delicati, tristi e potenti, Rememory tuttavia possiede una freddezza che non è solo nella forma e nella dimensione scenografica, e che porta lo spettatore sovente ad estraniarsi, ad allontanarsi, a guardare con involontario distacco ciò che ha davanti. Il che può essere un innegabile problema quando si vuole parlare di emozioni, di dolore, gioia, tristezza, disperazione, allegria, e sopratutto di rimpianto. Quel rimpianto che ci insegue tutti col passare del tempo, quell’invincibile sensazione di fallimento che la vita fa nascere dentro quando scopriamo che i sogni, le ambizioni, sovente sono scollegati a ciò che la vita ti scaglia addosso o non tengono conto della nostra paura, della nostra debolezza.

Rememory rimane tuttavia un film di grande delicatezza e poesia (per quanto non perfettamente riuscito) e che sicuramente mostra un lato nuovo di una fantascienza che, occorre sempre ricordarlo, non è solo alieni e spari, ma che può creare nuovi sguardi e nuove metodologie narrative atte comprendere noi stessi e il mondo in cui viviamo.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 4
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

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