Rainbow: recensione del film Netflix
Rainbow vede al centro delle vicende la missione di Dora, in cerca della madre.
Tutto è chiarissimo: ci sono una ragazzina con il suo cane, Toto, un tornado che spazza via la fattoria in cui vive. Ha un’evidente ispirazione Rainbow, il film di Paco Leon, su Netflix dal 23 settembre 2022, ed è Il mago di Oz o meglio Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum. Paco Leon vuole fare questo, prendere la storia di Dorothy e portarla ad oggi, basta questo per creare un film godibile?
Rainbow: un tornado spazza via tutto e porta Dora a esplorare il mondo e se stessa
Dora (Dora Postigo) vive con il padre che l’ha cresciuta da solo, e il suo cagnolino. Ha i capelli rosso fuoco, fa le smorfie e urla senza suono davanti allo specchio mentre si taglia la frangetta, e poi canta, una grammatica, quella musicale, che l’ha aiutata a comunicare e raccontarsi. La ragazza, con le cuffie alle orecchie piene di note, ascolta i brani che più ama e tutto, anche il mondo fuori va a tempo; inizia così Rainbow. È il suo 16° compleanno e per festeggiare mangia la torta con suo padre, proprio quella notte, mentre parlano della madre di Dora che ha abbandonato marito e soprattutto figlia parecchi anni fa, un tornado si scatena.
Dora: “Voglio conoscerla, voglio sapere perché se ne è andata. Voglio che me lo dica lei, io voglio capire.“
Sembra che la Natura esploda per seguire la ragazza e le sue emozioni, proprio in quel momento lei, sentendosi sola e tradita anche dal padre, scappa di casa ed è pronta ad iniziare un viaggio che la porterà a crescere e a maturare.
Il viaggio di Dora sarà complesso, difficile, underground anche per lo stile, la musica e il mondo in cui si perde, nella stessa maniera anche lo stesso film è complesso e come la sua protagonista anche lui a tratti vaga tra vari generi, non trovando sempre la sua strada, ibrido tra road movie, musical (non musical), delirio almodovariano e omaggio all’opera originale.
Tra streghe e tre nuovi amici, Dora si dimentica la sua vera meta
Una grande opportunità sprecata
Dora: “Stavo cercando mia madre, credo che lei lavorasse qui. […] Credo che una di voi due dovrebbe essere mia nonna”
In Rainbow, la missione di Dora è trovare la madre perché per crescere si deve prima di tutto capire da dove si è partiti. La ragazza conosce Coco (Carmen Maura), una donna cattiva e violenta il cui marito è il re di una casa di moda, e poi Maribel (Carmen Machi). Una delle due dovrebbe essere sua nonna e potrebbe aiutarla a ritrovare colei che le ha dato la vita. Ovviamente nulla va come deve andare e Dora si trova invischiata in un gioco crudelissimo messo in atto da Coco che indica la ragazza come l’assassina di suo marito. Carmen Maura e Carmen Machi incarnano le streghe dell’originale rivisitato, in una modalità lesbica e litigiosa ma non sono così tanto approfondite da poter colpire lo spettatore per davvero.
La protagonista inizia una fuga disperata, l’unica cosa che l’aiuterà sarà l’incontro con tre uomini, così simili per indole allo Spaventapasseri, all’Uomo di latta e al Leone codardo. Quindi sulla strada di mattoni gialli lei farà la conoscenza prima di Muneco (Ayax Pedrosa), un folle spensierato, un tossicodipendente maniacale che rappresenta lo Spaventapasseri, che vive in una discarica, poi di Jose Luis (Luis Bermejo) – un uomo che ha perso la speranza, vestito con un abito grigio, che viaggia su un’auto d’argento, una rappresentazione dell’Uomo di latta -, sull’orlo di una scogliera, sul punto di lanciarsi nel vuoto e per ultimo da Akin (Wekafore Jibril) che si incrociano ad una festa dove sta litigando con il proprio fratello in quanto mostra apertamente la sua omosessualità. Di volta in volta i personaggi si aggiungono e il gruppo alla fine si compone di quattro persone. Rainbow vuole creare una versione queer, arcobaleno appunto, di Il mago di Oz ma non sempre riesce nell’intento, spesso si disperde tra colori vibranti che definiscono la protagonista e ogni personaggio, visioni fantastiche, anche a causa dell’uso di stupefacenti da parte del gruppo e musiche.
Secondo Leon, la destinazione di un viaggio come quello di Dorothy dovrebbe essere noi stessi, il modo in cui si affronta il cammino e con chi lo si percorre, la storia dovrebbe essere raccontare il viaggio iniziatico di un’adolescente che diventa adulta, scopre chi è e realizza chi vuole essere, ma così non accade, o non totalmente. Addirittura il principio da cui la storia parte, il bisogno di Dora di trovare sua madre, ad un certo punto perde d’importanze e quindi la stessa costruzione del film cade. Il ritrovare la madre vuol dire ritrovare le sue origini – il padre è già parte integrante della sua vita -, scoprirsi e quindi andare Uavanti, ricongiungersi a lei però manca di gravità emotiva e quindi anche il suo percorso di crescita si sbilancia e deve più volte ritrovare il suo centro per poi ripartire da capo.
L’idea d’origine di Rainbow era interessante ma qualcosa è andato storto. Sarebbe potuto essere molto più breve e avere un’identità più chiara perché per essere prismatici la storia e la sceneggiatura devono essere perfette – e questo non è il caso. L’opera contorta e psichedelica di Leon crea confusione e, incredibilmente, ci sono dei momenti in cui lo spettatore si annoia nonostante tutti questi input. Un’occasione in parte sprecata.