No Time to Die: recensione dell’ultimo film di 007

No Time to Die segna l'ultimo capitolo dello 007 interpretato da Daniel Craig. In sala dal 30 settembre, scopriamo perché correre al cinema.

Dopo tre lunghi rinvii la sfida di Bond era tornare in sala. E 007 ha vinto, ancora una volta. Non avevamo dubbi. Ma rivederlo lì, sul grande schermo che lo ospiterà a lungo a partire da giovedì 30 settembre, ci ricorda che come Bond – “James Bond” – non c’è nessuno. Anche se No Time to Die vorrebbe riscriverne il mito per ricominciare da zero. Un intento nobile ma difficile, richiesto da tempi che corrono veloci e cambiano i valori di un frenchise ormai sessantenne. Ma nessuno si azzardi a dire “Ok Boomer”. 007 ha ancora molto da (s)offrire, protetto ormai da un’aura classica, un’anima moderna e un mondo di avventure tutto contemporaneo.

Dopo cinque film finisce dunque l’avventura di Daniel Craig, chiamato a chiudere un reboot iniziato nel 2006 e segnato da alti (Casino RoyaleSkyfall) e bassi (Quantum of SolaceSpectre). Riuscirà No Time to Die a dare un senso al suo titolo? Ecco a voi il venticinquesimo film di James Bond. Preparate l’Aston Martin. Ma niente smoking, i tempi stanno per cambiare.

Tra classico e moderno, No Time to Die cattura ma sbaglia sul finale

No Time to Die - cinematographe.it

James Bond si è fatto attendere e in No Time to Die non si cede facilmente. Pronti all’azione più pura, che ha caratterizzato tutti i prologhi della saga con Daniel Craig, ci ritroviamo immersi invece in un ricordo. A riviverlo è la mente di Medelaine (Léa Seydoux). Prima una Bond girl, poi il suo vero amore. Scopriamo così che il passato della ragazza si lega nel sangue con Safin (Rami Malek), nuovo villain che trascinerà Bond lontano dal breve idillio con l’amata. La bella Matera dove l’agente si è ritirato a vita civile è un’illusione. No Time to Love, dunque.

007 è maledetto? No Time to Die si interroga spesso al riguardo. E trova la risposta. Perché il ritorno di Bond all’azione si accompagna a un tentativo di ritrovare la normalità. Di farsi da parte. Con il male si gioca a Poker, diceva Casino Royale. Ma il tavolo è truccato.
Lo vediamo nei vestiti, il cambiamento. Un Bond in lino, soggetto alle pieghe. Solo per un attimo riappare lo smoking. Quando torna a combattere al fianco del compagno della CIA, Felix Leiter (Jeffrey Wright). Una sequenza perfetta che reinnesta nelle vicende i giochi di potere più politici e i sottili riferimenti al mondo di oggi. “I nostri leader non vanno più d’accordo”, ci racconta Leiter. D’altronde No Time to Die esce oggi ma è un film di due anni prima. A trumpismo ancora vivo. Questo scarto rende l’ultimo film di Bond davvero interessante. Particolare è infatti che l’arma del nemico sia in tutto e per tutto un virus. Per altro prelevato a forza in un laboratorio dove si scherza di Ebola e Vaiolo. “Il nemico è nell’etere” dice Bond. Scopriamo infatti che Safin è entrato in possesso del progetto Heracles, capace di uccidere a piacimento chiunque possieda un DNA di cui è stato registrato un campione e tutti coloro che entrino in contatto con il suo proprietario. Un’arma che non ha disinnesco. Nessun filo rosso, nessun filo blu. Ma non sentirete la parola virus, i tre rinvii di No Time to Die hanno dato il tempo per i giusti tagli. Il medesimo destino della scena delle torri gemelle nello Spiderman (2001) di Sam Raimi.

A sorprendere il pubblico tornato in sala (che ci si aspetta possa essere numeroso) è una risata diffusa. No Time to Die strappa più di un sorriso. Non è la commedia estenuante dei film Marvel ma il sarcasmo puntuale del più classico dei Bond. Perché 007 non è solo l’azione del corpo consumato dalla corsa. 007 sfida, in primis, con la mente. Un intelletto fuori dal comune – di natura holmesiana – che duella con il mondo. Nei migliori film di Bond la sceneggiatura è dunque anche questo, e d’altronde ne è costretta dal momento che il franchise vive da tempi immemori, precedenti al cinema delle facili esplosioni e dunque generoso di grandi battute capaci di innestare l’azione nel dialogo. No Time to Die trova la giusta via di mezzo. Di certo non lesina roboanti deflagrazioni e corse in macchina, ma apprezza anche il botta e risposta più fine. Phoebe Waller-Bridge, autrice e regista tra le più apprezzate del nostro tempo – suo l’amato Fleabag -, ha capito James Bond. E lo scrive a dovere. Ma, soprattutto, ha colto che ogni Sherlock Holmes è tale se incontra i giusti sfidanti. Attorno a 007 abitano infatti i consueti compagni di viaggio – da Moneypenny a Q, una sorta di famiglia putativa – ma anche nuovi volti. Uno su tutti 007.

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Sì, avete letto bene. Perché da quando Bond si è ritirato il doppio zero è stato riassegnato. Che sfregio, ma che sfida per il vecchio Bond! A interpretare il nuovo agente con licenza di uccidere è Lashana Lynch, che avvicina l’agente in pensione (anticipata?) attirandolo in una trappola che racconta il mutare dei tempi. Condotto con l’inganno nella sua stanza da letto, la nuova 007 si rivela a Bond e lo manda in bianco. “Il mondo è andato avanti”, gli dirà più tardi. Ma lui sa che “il mondo non cambia mai”. E in fondo ha ragione Bond. Perché, ancora una volta, il destino del mondo è nelle sue mani.

Più buffa, macchiettistica e soprattutto adorabile è invece Paloma, l’agente interpretata da Ana de Armas che fa capolino in No Time to Die giusto il tempo di conquistare spettatori e spettatrici. Divertente e combattiva, lascia addosso il dispiacere di averla incontrata sul volgere al termine di questa saga.

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No Time to Die è prima di tutto un film chiaro. Parte da una virgola e arriva a un punto. Elemento raro nel genere spionistico, spesso sincopato e volontariamente dispersivo. Cary Joji Fukunaga arriva alla regia da un’eredità difficile. Sam Mandes ha diretto i due Bond precedenti. Il primo è indimenticabile, vero termine di paragone per No Time to Die: Skyfall, 2012. Il secondo, al contrario, è abbastanza insipido: Spectre, 2015. Entrambi però hanno condotto lo 007 di Daniel Craig al limite del personaggio. Chiudere il cerchio era impresa ardua, ma riuscita. A Fukunaga riconosciamo un’idea chiara del cinema d’azione, che pervade No Time to Die in tante piccole trovate che funzionano. Non è certo Skyfall, in cui l’accoppiata regia-fotografia di Mendes e Roger Deakins (il genio dietro 1917) non ha molto a che vedere con No Time to Die. Ma è un altro mondo rispetto a Spectre.

Fukunaga ne ripesca il villain, il Blofeld interpretato da Christoph Waltz, e ne risana il meritato spessore. L’incontro tra Craig e Waltz intavola un gioco psicologico intrigante, non lontano (seppur più breve) da quello osservato con Mads Mikkelsen in Casino Royale. La scena in questione è inoltre un buon esercizio di suspense in pieno senso hitchcockiano: a noi spettatori il compito di custodire le verità di un pericolo imminente. Bond è anche questo, ma non solo. Perché un cattivo d’azione, con trame e intenti, serve. E qui manca.

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Non incolpiamo Rami Malek. Perché gli sforzi dell’attore si scontrano con un montaggio finale che lascia al villain uno spazio ridicolo. Ragioni e ambizioni del nuovo nemico dell’umanità rimangono fuori campo, forse nascoste in qualche sequenza ritagliata che prima o poi, speriamo, potrà essere riportata alla luce. Ma No Time to Die dura due ore e quarantatré. Non certo un film breve, nonché il più lungo del franchise. L’ultimo atto ne fa però un film monco, retto esclusivamente sull’attenzione che la chiusura della saga di Craig riesce a catalizzare. Il sangue che sgorga da Bond ha un colore nuovo, non più segno di un mortale invincibile ma di un immortale all’inaspettata fine. “The blood you bleed
Is just the blood you owe” canta Billie Eilish nella canzone ufficiale di No Time to Die. 

Tanto basta per coprire i vuoti del film? Forse no, perché per quanto Bond sia un nome eterno (“Non è solo un numero” sarà costretta ad ammettere la nuova 007) è da dimostrare la natura dell’attaccamento (e della conoscenza profonda) del grande pubblico verso la saga di Craig. Nonostante questo, gli eventi finali – in parte ingiustificati da una sceneggiatura troncata da ragioni misteriose – non lasciano indifferenti. Qualcosa però manca, e se Bond convince e rende onore al mito, la sua dolce metà Medelein e il cattivo Safin vengono privati delle necessarie ragioni per agire secondo una logica che giustifichi gli eventi.

Bond, dopo Bond: è tempo di morire?

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L’hobby di Bond? “La resurrezione”. Quante verità in Skyfall. Quante risposte in No Time to Die. Il film più difficile dell’intero franchise. Ma la resurrezione può essere dannosa. Soprattutto se non è abbastanza celere. Entro i tre giorni diciamo. Bond invece ne ha attesi ben sei (di anni) dopo Spectre. Cinque voluti, uno (e mezzo) forzato. E il mondo intanto è cambiato, Signor Bond. “Vivi nelle rovine” (ancora Skyfall). Non solo per la Pandemia. Metoo e blacklivesmatter sono solo due delle etichette che aleggiano minacciose su un franchise che inevitabilmente si scontra con uno zeitgeist imprevisto. Per non citare Brexit, nemico imprevisto di 007. Per questo forse Barbara Broccoli, storica produttrice di Bond, nel Podcast ufficiale dedicato a No Time To Die, si affretta ad affermare che 007 vive in un mondo altro, diverso dal nostro, pur smentendo il dato di fatto contrario. Bond ha sempre combattuto le nostre paure nel nostro mondo. Dai Russi ai Virus (in questo caso anche con un po’ di preveggenza).

La strada però è battuta. Il Bond di Craig era già una storia nuova per un mondo diverso. Un mondo di terrorismo, e dunque di disperato bisogno di umanità. E così 007 era un orfano dal passato travagliato. E cosa sarà ora di Bond? Dopo il Covid, dopo la Brexit, dopo il Metoo. Dopo Craig. Se vi hanno detto che sarà donna nera queer, non prestate attenzione. Non sarebbe un reale problema, capiamoci. Ma non sarà così. O almeno questo ha dichiarato Barbara Broccoli, che nelle ultime settimane ha iniziato a diffondere i requisiti minimi per la ricerca del nuovo 007: dovrà essere uomo e appartenente al Commonwealth. Dunque chiunque dai cinquantaquattro paesi che appartennero all’Impero britannico.

Ovviamente il reboot vedrà Bond mediare con i nuovi valori della società. Ma d’altronde è sempre stato così. Daniel Craig non ha difatti molto da spartire con Sean Connery. Nemico più difficile sarà invece Brexit, che mina la già difficile credibilità del soft power su cui tutta la serie si è sempre retta. In uno scacchiere politico che vede l’Inghilterra isolata – in tempi di nuove potenze e super conglomerati economici – l’agente 007 dovrà faticare per giustificare un’ingerenza così necessaria nei destini del mondo.

Sul destino di Bond, invece, possiamo solo sperare. Di certo, c’è ancora spazio per un cinema d’azione equilibrato tra i movimenti di macchina e gli andirivieni psicologici. No Time to Die ne è una forte dimostrazione, nonostante tutto. Piacerà al pubblico, farà discutere gli appassionati. Resterà. Dopo 25 film, e 59 anni. “Come ai vecchi tempi”.

No Time To Die è al cinema dal 30 settembre 2021.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 4.5
Emozione - 5

4.1