Maryam of Tsyon – Cap I. Escape To Ephesus: recensione

Maryam of Tsyon - Cap I. Escape To Ephesus è il primo capitolo dell'opera firmata da Fabio Corsaro che segue le vicende narrative di Maria di Nazareth dopo la resurrezione di Cristo.

Maryam of Tsyon segue il percorso narrativo di Maria di Nazareth dalla resurrezione di Cristo alla fuga verso Efeso. Nei titoli di apertura lo spettatore apprende l’esegesi biblica e la fonte narratologica utilizzata per stendere la sceneggiatura della pellicola: il soggetto è tratto dalla biografia redatta da Clemens Maria Brentano e basata sulle visioni della mistica tedesca Anna Katharina Emmerick (1774-1824), con rimandi al Vangelo canonico di Giovanni e al Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo. Il film è programmatico nella struttura della propria introduzione perché presenta in modo incipitale e didascalico l’intenzione narrativa (presentare una storia accurata e dettagliata di Maria di Nazareth) e il punto di vista narratologico del regista (un uomo dedito alla fede cristiana che affronta gli usuali dubbi dogmatici di un credente); il film utilizza uno stilema metacinematografico per presentare entrambe le questioni: la scena di apertura mostra il regista della pellicola recarsi in una chiesa del Principato di Monaco e pregare la Madonna, chiedendole l’aiuto necessario per la realizzazione del film che lo spettatore sta guardando.

Da Monaco a Efeso: Maryam of Tsyon tenta con difficoltà di trasporre la vita di Maria con fedeltà storica

La prima questione (l’intenzione narrativa) fallisce subito in avvio di pellicola per problematiche scelte tecniche e riceve un ulteriore fallimento di intenti proprio a causa della seconda questione registica (il punto di vista narratologico) perché la visione di un credente priva il film di imparzialità e depotenzia l’intento di scrupolosità espositiva dei fatti narrati. L’intenzione narrativa decade a partire dai titoli di testa della pellicola per colpa di una sovrabbondanza formale che genera un fenomeno di ipercorrettismo: i titoli di testa di Maryam of Tsyon si aprono con un voice over in lingua latina, presentano didascalie in lingua italiana, riportano i nomi dei personaggi tramite la trascrizione fonetica in lingua ebraica ma la traslitterazione in lingua aramaica e rivelano il titolo e il sottotitolo del film in lingua inglese: davanti a questo crogiolo linguistico una persona non consapevole delle lingue adoperate percepisce assenza di linearità, un conoscitore delle lingue precedentemente indicate percepisce fastidio.

Maryam of Tsyon, Cinematographe.it

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Matteo Rovere ne Il primo re era riuscito in maniera discreta a utilizzare la lingua come strumento di maggiore accuratezza storica: malgrado alcuni momenti di eccessiva eleganza sintattica, il proto-latino plasmato appositamente per il film riusciva nell’intento perché era bilanciato dalla scelta attoriale di personaggi che spesso si limitavano a una comunicazione basata su grugniti e versi (una comunicazione non verbale che metteva in risalto l’uso incerto della futura lingua latina). In Maryam of Tsyon il latino utilizzato – in particolare il latino utilizzato dai soldati dell’esercito romano – è una lingua eccessivamente lineare da utilizzare sulle labbra di persone che non avevano un’elevata formazione culturale; di base è una lingua priva di sbavature perché è il latino utilizzato in ambito didattico con pronuncia scolastica. Un ulteriore fenomeno di ipercorrettismo: quel latino che avrebbe dovuto garantire maggiore realismo genera straniamento nello spettatore. Simile argomentazione riguarda il lavoro del reparto di scenografia e costumi. A fronte di un budget non particolarmente elevato, la pellicola cade in una pretestuosità che mina l’intelligenza dello spettatore: non possiede nessuna razionalità filmica la scelta di presentare l’ingresso in scena di soldati tramite l’inquadratura in dettaglio del vessillo legionario romano (uno stendardo riservato a compagini di esercito composte da migliaia di uomini) se le comparse sullo schermo sono numericamente quindici.

La sceneggiatura procede per quadri di struttura teatrale che limitano il valore delle immagini

Malgrado la povertà degli ambienti domestici e le difficoltà di una vita trascorsa tra le isolate colline dell’Anatolia costumi e trucco non trasmettono la fatica e il sudore dei personaggi perché il candore della loro pelle e dei loro vestiti è perennemente immacolato, come l’anima di Maria. Meno pulita è la performance attoriale per motivazioni di dizione (gli attori commettono errori morfologici nella pronuncia delle parole) e per motivazioni di contesto (in uno stesso dialogo è possibile ascoltare un cittadino romano alternare pronunce greche e latine; e un nazareo alternare pronunce italiane ed ebraiche). La recitazione didascalica degli attori – purtroppo – non è supportata dalla sceneggiatura perché i dialoghi conservano per tutta la durata del film il ripetitivo e ripetuto impianto narrativo, ovvero quadri teatrali basati sullo schema A/B dove un personaggio A pronuncia una proposizione interrogativa (di solito domande riguardanti dubbi di fede) e un personaggio B risponde alla domanda con citazioni bibliche, spiegazioni teologiche, riflessioni spirituali: Maryam of Tsyon assume i contorni di un podcast domenicale in cui le immagini non aggiungono nulla alle parole. Ugualmente ripetitivi e ripetuti sono i suoni (in particolare, versi di animali e fenomeni atmosferici) aggiunti in post-produzione che acusticamente non si uniformano con l’ambiente di scena.

Maryam of Tsyon, Cinematographe.it

Nonostante l’accuratezza storica e storiografica di un film non sia una discriminante unica di valutazione, Maryam of Tsyon subisce nel finale la rottura completa della sospensione di incredulità da parte dello spettatore perché la sceneggiatura interrompe la finzione scenica (nella terminologia di ‘finzione scenica’ non è presente nessuna nota di negativa critica alla religione: un film – indipendentemente dall’argomento trattato – è un’opera di finzione scenica). La parte conclusiva della pellicola si focalizza interamente sul simbolo della croce usato da Maria di Nazareth come prova della potenza di Dio: il personaggio di Maria e il regista (nella parte metacinematografica) definiscono ripetutamente il simbolo della croce con il termine Tao, generando l’ennesimo straniamento da parte del pubblico. Il Tao è un simbolo religioso tuttavia appartiene alla dottrina cinese del Taoismo; invero nel film si sarebbe dovuto accennare al Tau, icona del Cristianesimo.

L’assenza di coraggio nella sceneggiatura rende iconico e depotenzia il ruolo di Maryam

Maryam of Tsyon è in potenza un soggetto originale perché tratta episodi poco conosciuti sulla vita di Maria di Nazareth tuttavia la sceneggiatura dissimula la figura della Madonna. Durante l’intera durata della pellicola la figura della donna è presentata come potente e forte pari a Dio e nel finale raggiunge una reverenza divina da parte delle persone che la circondano; malgrado questa caratterizzazione il personaggio è nel finale delegittimato del proprio ruolo: l’emblematica scena dell’eucarestia vede Giovanni – e non Maria – consacrare e celebrare il pane e il vino. In Maria Maddalena del regista Garth Davis il personaggio di Maria di Magdala (Rooney Mara) possiede una caratterizzazione forte e al tempo stesso un forte ruolo sociale nella comunità apostolica; ugualmente Maryam of Tsyon avrebbe dovuto avere il coraggio di portare la potente Maria di Nazareth su un gradino egualitario dell’uomo Giovanni, offrendo per la prima volta la visione di una donna che celebra una funziona ecclesiastica che in ambito cristiano è una prerogativa esclusivamente maschile. La pellicola si basa anche su testi biblici non canonici, come la citata biografia su Anna Katharina Emmerick, dunque non ci sarebbe stato problema alcuno rappresentare Maria potente sia da un punto di vista religioso sia da un punto di vista sociale.

Il film è al cinema da giovedì 13 giugno 2019 distribuito da Fiori di Sambuco Film.

Regia - 1.5
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 1.5
Recitazione - 2
Sonoro - 1.5
Emozione - 1.5

1.6