Malamore: recensione del film di Francesca Schirru
Una storia imprevedibile che intreccia libertà, violenza, corruzione.
Malamore è il primo lungometraggio che vede Francesca Schirru alla regia, presente anche in veste di co-sceneggiatrice insieme a Cesare Fragnelli. Avendo curato numerosi prodotti cinematografici come aiuto regia, editor, assistente e delegata di produzione, Francesca Schirru debutta dietro la macchina da presa con un film ambizioso, che dirige con occhio attento, raccontando una storia attuale e profondamente sentita. Nel cast del film troviamo: Giulia Schiavo, vista in film come Amici per caso, La partita, Sotto il sole di Riccione e nella serie tv Skam Italia; Simone Susinna, modello e attore presente nel ruolo di Nachos nei film Netflix 365 Giorni – Adesso e Altri 365 Giorni e Antonio Orlando, presente in serie tv come Non uccidere, Esterno notte, la terza stagione di Baby e Suburra, e in film quali Il primo re, Il traditore e Comandante. A completare il cast Antonella Carone, Simon Grechi e Domenico Fortunato. Malamore è la storia di Mary e della relazione che la tiene prigioniera di Nunzio, boss della malavita a sua volta sposato con la capoclan Carmela. Con Nunzio Mary è costretta a incontrarsi in carcere e a sottostare a qualsiasi sua richiesta. Tra un nuovo incontro che risveglierà in Mary la possibilità di una vita diversa e gli avvertimenti di Michele che cerca di proteggerla, ma che si trova spesso a dover servire Nunzio, Malamore crea un intreccio dinamico e ben strutturato, riflettendo su temi di cui sembra non si parli mai abbastanza.
Malamore e i temi che incarnano i significati di relazione tossica e violenza di genere

Emancipazione, differenze di genere, libertà, violenza di genere, criminalità e corruzione: Malamore parla di tutto questo e lo fa attraverso una storia d’amore, attraverso una protagonista che subisce l’aggressività di un uomo che, a detta di lei stessa “è cambiato”. Che sia stato il sistema carcerario o che la violenza fosse insita dentro di lui da tempo e aspettava solo il momento e il pretesto per esternarsi in tutta la sua crudeltà, non è dato saperlo. Tra la paura delle conseguenze, essendo l’antagonista Nunzio boss di un’importante organizzazione criminale, con pericoli che potrebbero abbattersi anche su chi è più vicino alla protagonista Mary, Malamore affronta così anche l’insormontabile difficoltà che si vive nell’allontanarsi e chiudere definitivamente una relazione tossica. Creando un intreccio che si risolve con qualche colpo di scena e che forse eccede leggermente sul finale, mirando ancor di più a rendere Malamore effige e progetto della spregiudicata efferatezza che nasce, matura e aumenta in un mondo dilaniato dalla criminalità.
L’amore, la fiducia e gli affetti diventando gli elementi rivoluzionari e sovversivi per abbattere un sistema che regola le vite, distrugge i sogni e non accetta nessuna possibilità di evoluzione; cinema e televisione insegnano come nel mondo della criminalità spesso non ci sia spazio per sentimenti sinceri e puri, per il rimorso o il perdono. Caricati da un senso di giustizia che divora dall’interno, quando i limiti vengono superati. Per quanto l’ambiente criminale giochi un ruolo sostanziale nel film, si rivela cornice e opportunità per raccontare realmente il tema della violenza, della mascolinità tossica più nociva e letale, apparentemente senza speranze. Indurita dal codice d’onore, dalla vendetta e dal background, ma più di tutte legata, con incandescente semplicità, alla scelta consapevole di non accettare un rifiuto. Non si tratta infatti di un’incapacità, ma di una decisione che se presa dalla figura femminile, non ha alcuna voce in capitolo, giustifica qualsiasi innominabile atto. E Francesca Schirru chiarisce come questa convinzione della mente Nunzio non deriva dal suo legame con la malavita.
La regia di Francesca Schirru che va oltre la mano di un’opera prima

Riprese dall’alto, momenti onirici che calcano la mano sul dramma, e una regia che, precisa e minuziosa, senza mai esagerare, si abbandona a descrizioni di come carichi di droga arrivino nei porti, di come vengano smistati e poi trasportati dal mare alla terraferma. I colori caldi e vividi della fotografia creano un contrasto con il mondo duro, crudo e spietato che viene raccontato, creando così immagini poetiche e scintillanti, mostrando situazioni di estrema tragicità, di irrisolvibile complicazione e di puro terrore. Gli occhi di Giulia Schiavo si illuminano di amore e della possibilità di una vita lontano da quel mondo nell’incontro con un personaggio simbolo di speranza, ma allo stesso modo poi si spengono, diventando umidi, nebbiosi, vacui. La sceneggiatura, senza brillare, è realistica e verosimile, lasciando da parte una vena poetica che nell’asprezza e malvagità del film avrebbe potuto stonare e non creare lo stesso effetto dato invece della fotografia. Il montaggio alterna scene apparentemente slegate dal racconto, ma che poi sorprendono nella risoluzione di quei cliffhanger che accentuano l’andatura cadenzata della storia.
Malamore: valutazione e conclusione

Malamore sono quelle diverse forme di libertà ordinarie e comuni, ma quasi pallide utopie senza meta nel mondo criminale. Se l’amore e l’affetto non hanno la stessa valenza, anche la libertà, che in ogni contesto è tanto ambita e agognata, ha significati opposti. Malamore sono i diversi profili di sopravvivenza femminile di donne vittime perseguite e oppresse da uomini avidi, finti padroni e ignari dominatori, accecati solo dalla logica del potere. Malamore sono le differenze di genere che mai sembrano riuscire a non trasformarsi in violenza di genere. Ma soprattutto Malamore ragiona anche su quel problema spesso a monte di tutto: si ha una vaga idea di quanto possa essere difficile capire di star vivendo e riuscire quindi ad uscire da un relazione tossica? Una domanda che non sempre ci si pone. Malamore è tutto questo, insieme a una trama fitta e satura, che nel rischio di dire troppo, riesce poi a concludere ognuna delle storyline aperte all’inizio. Concludendo una storia che si rivela imprevedibile, dove violenza e sofferenza sono complementari, causa e conseguenza l’una dell’altra. Unite anche dalla loro capacità di rendersi invisibili.
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