L’ultimo re di Scozia: recensione del film con James McAvoy

Un film interessante che attraverso una mescolanza di realtà e finzione ci racconta una vicenda di crudeltà e potere poco nota nel mondo occidentale.

L’ultimo re di Scozia è un film del 2006, tratto dall’omonimo romanzo di Giles Foden, diretto da Kevin Macdonald ed interpretato da James McAvoy e Forest Whitaker. La storia vede protagonista un personaggio di fantasia inserito nelle reali vicende del regime instauratosi in Uganda tra il 1971 e il 1976 sotto il dittatore Amin Dada. Il film ha valso a Whitaker l’Oscar per il miglior attore protagonista.

La trama vede protagonista Nicholas Garrigan, giovane studente scozzese da poco laureatosi in medicina che – non è soddisfatto della sua vita ordinaria – decide di volare in Uganda per offrire la sua professionalità a favore della popolazione locale e soprattutto alla ricerca di una nuova avventura. Qui farà casualmente la conoscenza del neopresidente Amin Dada, il quale rimarrà colpito dalla sfrontatezza e delle capacità di Nicholas, fino a prenderlo come suo medico personale e consigliere fidato. Garragan è inizialmente sedotto dalla personalità del leader ugandese, convincendosi che questo operi realmente per il bene del proprio popolo, ma a poco a poco si ritroverà travolto in una spirale di menzogne, violenze e atrocità che gli faranno aprire gli occhi, ma da cui sarà difficile uscire.

L’ultimo re di Scozia è costruito secondo il punto di vista del giovane medico scozzese, rappresentativo di una visione parziale tipica dell’uomo medio occidentale

L'ultimo Re di Scozia Cinematographe.it

L’ultimo re di Scozia è costruito secondo il punto di vista di Nicholas, sprovveduto e ingenuo ragazzo convinto di trovare una nuova avventurosa vita in Uganda, dove però si inserisce senza la minima conoscenza del contesto locale, del suo tessuto sociale e delle dinamiche politiche che la governano. Il suo personaggio incarna la superficialità dell’uomo occidentale medio convinto di poter fare del bene a un Paese povero, più per brivido personale che per reale tensione umanitaria, trovandosi poi però a dover capovolgere completamente la propria prospettiva, in maniera brutale. Garrigan nella sua superficialità incarna propriamente le caratteristiche di un benestante convinto di svoltare la propria esistenza senza sapere ciò a cui sta andando incontro; pur operando senza cattiveria e con ingenuità si presta a coprire le decisioni sempre più opprimenti di Dada, non capendo o facendo finta di non capire la realtà dei fatti. È quindi attraverso la sua prospettiva che vediamo la crescita del dittatore Amin, la sua ambivalenza e la sua malcelata bramosia per il potere, fatta di paranoie, falsa benevolenza popolare, e spietata crudeltà.

È interessante lo stratagemma con cui è costruita la narrazione, ovvero l’inserimento di un personaggio non esistito realmente attraverso il quale però veniamo a conoscenza della realtà dei fatti e con il quale abbiamo la possibilità di ricostruire una vicenda storica e drammatica che forse non è stata sufficientemente raccontata. Il film così aumenta il coinvolgimento e il pathos riuscendo ad equilibrare narrazione storica e scorrevolezza cinematografica.

A reggere tutto il film è il continuo confronto tra i due protagonisti, in un’evoluzione che costruisce progressivamente la complessità della figura di Amin Dada

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Tutta la vicenda si incentra sul confronto tra i due protagonisti e sulla costruzione, tassello dopo tassello, della reale personalità e delle vere intenzioni di Amin Dada. È proprio Dada a rappresentare il fulcro del film, con la sua complessa ambiguità; il racconto ce ne svela a poco la contraddittorietà e la spietatezza, mostrandoci prima il suo lato falsamente benevolo, fatto di sorrisi, feste e incontri popolari, per poi farci scoprire, assieme al protagonista, le sue efferate decisioni e metterci di fronte agli occhi in maniera diretta e brutale tutta la sua follia. La regia, per quanto abbastanza canonica, risulta funzionale a questa mosaico che si compone, a forza di rivelazioni non più oscurabili, di fronte agli occhi del giovane medico scozzese.

L’ultimo re di Scozia è interpretato da un eccezionale Forest Whitaker

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A rendere tutte le sfumature del dittatore ugandese è uno straordinario Forest Whitaker, immedesimato nel personaggio fino all’inverosimile, capace di rendere in maniera assolutamente credibile tutta l’umanità e la disumanità di Amin, attraverso le sue insicurezze, i suoi scatti d’ira e la sua spietata brutalità. Al suo fianco regge bene anche un giovane McAvoy, a suo agio nel personaggio, riuscendo a non farsi oscurare dalla magistrale prova di Whitaker.

Nonostante qualche limite nella resa della realtà storica siamo di fronte a un film ben costruito che ha il merito di porre l’attenzione su una pagina della storia africana poco conosciuta

L’ultimo re di Scozia ha però un limite legato proprio alla realtà storica che narra, la quale viene per forza di cose semplificata e analizzata solo parzialmente in molti avvenimenti legati al periodo del governo di Dada, prediligendo alcune vicende personali e calcando talvolta eccessivamente la mano sulla finzione cinematografica. Questi limiti però non inficiano il risultato complessivo del film, che convince e riesce a trasmettere un messaggio significativo sul rapporto con il potere.

Siamo comunque di fronte a un buon prodotto, che ha il merito di farci addentrare in una vicenda poco nota ai nostri distratti sguardi occidentali, diretto in maniera adeguata, contornato da ambientazioni curate e verosimili, costruito in maniera coinvolgente e dinamica, con momenti emozionanti e altri che fan restare col fiato sospeso.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.4