Le Petit Piaf: recensione del film per bambini di Gérard Jugnot

Un film per giovanissimi che rischia di annoiare nella sua convenzionalità.

Le Petit Piaf è un film per bambini diretto dal caratterista francese Gérard Jugnot, che, tra l’altro, ha lavorato anche nel cinema italiano (La siciliana ribelle di Amenta del 2009).

Petit Piaf Cinematographe.it

La storia è quella dell’undicenne Nelson (Soan Arhimann). Il bambino, che vive nell’Isola della Réunion, è dotato di un grande talento canoro e, insieme agli amici Mia (Ornela Dalèle) e Zizou (Zacharie Rochette), gira un videoclip artigianale per partecipare a un talent show, Star Kid. Apparentemente il videoclip viene accettato e così Mia, improvvisatasi agente e stilista di Nelson, convince il vecchio chansonnier Pierre Leroy (Marc Lavoine), famoso per un solo pezzo e ospite del resort dove lavora la madre di Nelson, a preparare l’amico per il debutto. La madre del bambino però, donna lavoratrice con la testa sulle spalle, non crede al sogno del figlio. Mia e Zizou, invece, scappati da una casa famiglia, sperano che l’amico abbia successo e li porti a vivere con sé.

Le Petit Piaf: un film per bambini molto convenzionale

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Il prodotto in questione rientra nella tradizione di film per bambini, in cui le esperienze infantili costituiscono un microcosmo atto a replicare, in termini da commedia, le interrelazioni sociali degli adulti. Così Jugnot costruisce una trama inverosimile che mette in scena il rapporto fra i sogni offerti dall’industria dello spettacolo e la disillusione che deriva dall’impossibilità di realizzarli. Attribuisce, appunto, al mondo dell’infanzia una dinamica tipica dell’età adulta, per cui il talento e la creatività non sono libera espressione dell’interiorità o di un rapporto spirituale con la realtà, come avviene invece nel miglior cinema per bambini. Qui l’arte è prima di tutto strumento per cambiare la propria condizione economico-sociale, in quanto passepartout in grado di aprire le porte del mondo dello spettacolo, visto come una sorta di falsa utopia postmoderna. Il contesto sociale in cui i protagonisti si muovono, però, è completamente posticcio. I datori di lavoro e le figure in cima alla scala sociale sono sempre positive e hanno a cuore solo il bene dei lavoratori, mentre la povertà è una specie di condizione di natura determinata dal fato. Abbondano anche gli stereotipi. La nonna di Nelson pratica il vudù e farfuglia di spiriti e altre amenità; Leroy, cinico e disilluso all’inizio, in realtà ha il cuore d’oro; Monsieur Lepetit (Jugnot stesso) è un direttore di resort buffo, bonario e altruista. C’è pure un tassista bianco fissato col reggae che dice di esser africano!
Il film non riesce a costruire nessun personaggio accattivante e procede in maniera scolastica attraverso una narrazione fatta di piccole svolte molto prevedibili – come quella inerente al videoclip – e buoni sentimenti. Il mondo inquadrato dalla macchina da presa pecca di un esotismo figlio delle narrazioni colonialiste. Descrive infatti l’Isola della Réunion come un esotico paradiso tropicale, visivamente caratterizzato da una basilare colorimetria di gialli e blu pastellati, in cui, nonostante la povertà, la vita scorre tranquilla. La scelta di usare principalmente piani medi e angolazioni convenzionali, che non creano profondità prospettica, ma rimandano a una bidimensionalità da comic strip, è probabilmente ponderata. D’altronde tale scelta estetica non fa altro che acuire il senso di noia che inizia ad affiorare attorno alla metà del secondo atto, nel momento in cui si intuisce dove la storia andrà a parare.

Lo spettacolo dell’infanzia

Il finale del film reinserisce il tema della ricerca del successo nel mondo dello spettacolo all’interno di un contesto familiare allargato, quello dell’hotel. Il regista riecheggia così il gioco dei bambini, che spesso riscrivono, per mezzo della finzione ludica, il mondo degli adulti all’interno delle dinamiche relazionali infantili. Tale pratica, inscenata in uno spettacolo casereccio che mima quello di un talent forse vorrebbe essere un elogio dell’intrattenimento/arte come macchina oniropoietica. O forse, più semplicemente si tratta di una consolatoria metafora per una morale abbastanza convenzionale, secondo la quale si devono seguire i sogni, ma sempre rimanendo legati al contesto di appartenenza. Tanto poi le cose prenderanno la giusta piega grazie all’aiuto del fato, degli spiriti o alla buona coscienza di chi, nella scala sociale, è in alto.

Le Petit Piaf: valutazione e conclusione

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La regia del film è di mestiere, molto televisiva. La fotografia anonima, la recitazione è di livello decente. Purtroppo l’intera operazione è un altro esempio di come, spesso, il cinema dell’infanzia venga considerato adatto solo a propinare ai bambini storie d’accatto, velleitariamente pedagogiche e prive di qualsivoglia originalità.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 2
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 1.5

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