L’atelier: recensione del film di Laurent Cantet

L'Atelier (presentato a Cannes 70 col titolo The Workshop), al cinema dal 7 giugno con Teodora Film, è un film politico prima ancora che generazionale, un film non tanto o non solo per i giovani ma sui giovani, spietato, crudo e sincero.

La filmografia di Laurent Cantet è sicuramente tra le più prolifiche ed efficaci per ciò che riguarda la capacità di parlare e mostrare in modo genuino, onesto, intelligente e sincero il mondo dei giovani, evitando patetismi, banalità, semplificazioni o buffonerie varie in cui noi italiani siamo invece maestri. L’Atelier non fa che confermare la sensibilità e la maestria del regista francese, che ancora una volta crea un iter cinematografico vibrante, pieno di contenuti, intenso e di rara intelligenza. La stessa che gli aveva permesso di creare altri gioielli sui rapporti umani nella disastrata epoca moderna globalizzata come Risorse Umane, La Classe o A Tempo Pieno.

L’Atelier: un film pieno di domande, ma soprattutto di risposte

Tutto comincia con L’Atelier, appunto, un workshop diretto dall’affermata scrittrice di romanzi gialli Olivia Dejazet (Marina Fois), che coinvolge diversi ragazzi originari de La Ciotat, un tempo fiorente cantiere navale europeo, ormai lasciata in balia di una crisi economica strangolante dalla fine degli anni ’80. I ragazzi e le ragazze che compongono L’Atelier provengono da realtà molto diverse, ognuno ha la sua storia e le sue paure, i suoi segreti ed i suoi sogni. Vi è chi ha più talento e chi meno, chi partecipa e chi è più passivo, ma nessuno affascina ed incuriosisce più l’esperta (e un po’ spocchiosa) Olivia del giovane Antoine (Matthieu Lucci). Scontroso, solitario, sempre al limite tra provocazione gratuita e genialità incontrollata, ha però talento, personalità e un intuito al di fuori del comune. Tuttavia Antoine è un ragazzo in preda ad una sofferenza e un’incomunicabilità che solo lei riesce parzialmente a scorgere e che la spingerà sempre di più a tentare di entrare nella mente di questo giovane così strano, diverso ma forse anche per questo unico. Il tutto con esiti imprevedibili.

Film difficile, pieno di domande ma soprattutto di risposte, incentrato non tanto su uno scontro tra generazioni ma soprattutto su uno scontro tra passato e presente, L’Atelier si erge a perfetta chiave di lettura della nostra epoca,funge allo stesso tempo da lente d’ingrandimento nel descrivere contemporaneamente la dimensione “micro” (quotidiana ed umana) e quella “macro” (storica e culturale) del barbaro presente in cui viviamo. Basato su una robusta e intelligente sceneggiatura di Robin Campillo e dello stesso Cantet, sublimato da una fotografia efficace e discreta di Pierre MilonL’Atelier deve però molta della sua bellezza ed innegabile efficacia al cast, composto in gran parte da giovani esordienti, il che conferma il fiuto del regista nel saper scegliere in modo impareggiabile volti, voci e corpi perfetti per i suoi film.

Matthieu Lucci in L’Atelier dimostra di essere uno dei migliori giovani attori degli ultimi tempi

L'Atelier Cinematographe.it

Sono molte le tematiche affrontate da Cantet in questo diario della disperazione non solo francese, ma soprattutto occidentale: il razzismo, il terrorismo e la paura ad esso collegata, la povertà, lo scontro tra generazioni, il fascismo rinato in un’Europa dimentica non solo del proprio passato ma anche del proprio futuro, che si accontenta di un presente di odio, solitudine e povertà. Su tutti domina però la performance straordinaria dell’esordiente Matthieu Lucci, capace di dipingere uno dei migliori “giovani” visti recentemente al cinema. Vivido, intenso, emarginato perché un po’ se la cerca ma anche perché troppo più intelligente e talentuoso dei suoi coetanei, si collega in modo lampante e stupendo all’omonimo Antoine de I 400 Colpi, capolavoro di François Truffaut, di cui è erede, trasposizione moderna ed evoluzione allo stesso tempo. Afflitto da un’immaturità e una disperazione antiche, epocali, di quelle che di solito abitano i reduci di guerra o coloro i quali il meglio della vita lo hanno lasciato alle spalle e non davanti, si fa strada in un mondo freddo, ostile e cupo.

Solo, rabbioso, osservatore, fascista a fasi alterne perché succube di un cugino immaturo e stupido o perché annoiato, il protagonista si erge a perfetto simbolo della imperscrutabile e strana gioventù dei nostri tempi, arrogante ma allo stesso tempo profondamente insicura, senza alcuna autostima, senza ambizioni e soprattutto sogni. Ma in L’Atelier il regista, al contrario di tanti altri, non concede alcuna attenuante ai giovani, non li commisera né giustifica, anzi li accusa, li sferza, li mostra immaturi, egoisti, cafoni, violenti e intolleranti, e soprattutto fieri di esserlo. Materialisti, senza fantasia, spaventati da ciò che non conoscono o non capiscono, sposano un’ignoranza che sostanzialmente li condanna ad essere immobili dal punto di vista mentale e caratteriale.
Perché alla fine del viaggio, il grande regalo del regista è trattare i giovani come esseri responsabili, a cui troppo spesso il cinema o la politica regalano giustificazioni troppo facili, troppo comode. Chi, nella La Ciotat degli anni ’80, nell’Italia o negli Stati Uniti della crisi economica aveva la stessa età, dovette far fronte a ben altri problemi che qualche insulto razzista o la noia.

L’Atelier e il rapportarsi con i giovani senza pietismi

L'Atelier Cinematographe.it

Certo L’Atelier di Cantet punta anche il dito contro la società moderna, incapace di garantire un futuro, di dare qualcosa in più ai giovani che problemi ereditati da un passato che non conoscono, che temono e che finiscono per odiare perché sentono come un peso, una responsabilità che non hanno scelto. Sapiente nella narrazione, perfetto nel dare dal primo all’ultimo minuto una profonda sensazione di disagio e tensione, nell’evitare i cliché e i deja vu, l’opera di Cantet non si limita a puntare un dito ma offre anche soluzioni. Rivalutare la scala dei nostri valori, allontanarci dal concetto per il quale il successo equivale alla felicità, riabbracciare una visione della vita più semplice, più dura anche se si vuole ma più onesta e regolare. Soprattutto ricordarsi che esiste sempre un altrove, che non siamo legati ai luoghi in cui nasciamo, ai volti che stanno attorno a noi e alle parole che udiamo se non lo vogliamo.

È un film politico prima ancora che generazionale, un film non tanto o non solo per i giovani ma sui giovani, spietato, crudo e sincero, che schiaccia con intelligenza i cliché su “l’età della spensieratezza”, ricordandoci come spesso il cinema tralasci di quegli anni la violenza, la solitudine, la disperazione.

Regia - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.7