La macchina infernale: recensione del film con Guy Pearce

La macchina infernale è un film che si perde nelle sue stesse strade, si avvolge su di sé, mostrando le sue ombre più che le sue luci.

Bruce Cogburn (Guy Pearce) ha avuto un successo pazzesco grazie al suo primo romanzo, La macchina infernale, ma proprio a causa di questo enorme successo si è consumata anche una tragedia che ha segnato profondamente lo scrittore. A poche settimane dall’uscita del libro infatti un giovane di diciassette anni ha ucciso tredici persone e ferite ventisei, l’evento ha scosso l’intero Paese. L’autore della strage ha poi ammesso che ad ispirarlo sia stato proprio il celebre libro. Cogburn si è ritirato da venticinque anni e vive da solo, soltanto la sua agente sa dove vive. Un giorno però lo scrittore comincia a ricevere lettere minatorie, telefonate e pacchi dal contenuto misterioso e ritiene che il mandante sia il feroce assassino che si trova tra le mura del carcere dove sta scontando l’ergastolo. Ma scoprirà ben presto come la verità sia in realtà molto più spaventosa. Questa è la storia alla base di La macchina infernale, scritto e diretto da Andrew Hunt, un thriller psicologico che vuole imbrigliare lo spettatore per non fargli capire fino in fondo quale sia la verità. Il film è entrato nel catalogo Paramount+ il 12 agosto 2023.

La macchina infernale: le tessere di un puzzle che non combaciano

La macchina infernale ci porta nel mondo di uno scrittore come hanno fatto molti altri film di questo tipo, il film è immerso in atmosfere da noir californiano, in paesaggi assolati e desertici. A terrorizzare è proprio quel senso di spaesamento che sta alla base del testo, tra realtà e finzione, ed è quello stare sulla sottile linea di demarcazione che fa sentire il senso di perdita che prova il protagonista. Bruce rappresenta alla perfezione tale crisi: è o dovrebbe essere un vincente invece ha abbandonato la carriera a causa della tragedia derivata/causata dalla sua opera. Lui è costretto a convivere con un peso enorme che gli impedisce di vivere e con il proseguire della storia si fa sempre più ingestibile e insopportabile. Fin da subito comprendiamo il “problema”, lo spettatore è reso partecipe del rapporto tra il protagonista e il suo persecutore, il misterioso William Dukent – così dice di chiamarsi -, fatto di lettere, pacchi, piccole incursioni dell’uno nella vita dell’altro. Bruce – e quindi anche lo spettatore – sente in modo sempre più pressante la presenza di quell’uomo nell’ombra, sconosciuto e in potenza pericoloso, si sente in trappola e la storia diventa indagine. In poco tempo, il gioco del gatto e del topo costringe Cogburn a uscire dal nascondiglio e a confrontarsi con il suo passato, creando per lo spettatore un puzzle da risolvere. Ma quei pezzi del puzzle sono frastagliati quanto il trauma che circonda gli eventi che collegano l’autore al suo romanzo, che una volta ispirò un uomo a prendere un fucile su un alto trespolo e scaricarlo sui civili sottostanti. Più Cogburn si avvicina al confronto con il suo passato, più vorrebbe restare a casa, fuggire ancora da quel mostro.

Indaga in parte da solo e in parte con l’aiuto di una poliziotta, l’ufficiale Higgins, è l’azione ad avere la meglio, di volta in volta l’identità di Dukent cambia per poi svelarsi nel finale.

La pesantezza di una trama che si attorciglia sul suo stesso scheletro

La trama si attorciglia sul suo stesso scheletro e lo fa in modo confuso eppure la soluzione è molto più semplice e chiara – non tanto per chi guarda ma per il protagonista sicuramente lo è – di quanto si possa pensare e dunque come è possibile che l’esasperato Cogburn non ci abbia pensato fin dall’inizio? Il film riesce a costruire, a tratti, un’atmosfera tesa, lanciando qua e là vaghi indizi e al tempo stesso fondamentali per risolvere il caso, cibandosi dei tipici stereotipi del cinema di genere, eppure alla fine il ritmo è piuttosto noioso e, di minuto in minuto, il regista sembra non ritrovarsi nella sua storia, tutto si accumula in modo confuso. All’inizio la trama spinge in realtà chi guarda a credere che il responsabile di questo gioco perverso sia proprio il giovane che è stato rinchiuso per aver commesso la strage ovvero Dwight Tufford (Alex Pettyfer) per poi aggiungere altre piccole false piste, la verità è proprio su un’altra strada.

La macchina infernale: Valutazioni e conclusioni

La macchina infernale è un film che si perde nelle sue stesse strade, si avvolge su di sé, mostrando le sue ombre più che le sue luci. Il cast fa bene il suo lavoro, Pearce ad esempio, si veste completamente di Cogburn, un ex educatore e scrittore, uno che sceglie l’isolamento che si è trasformato nel cliché dell’eremita, che minaccia di fucilare chi lo cerca ma poi si perde nella ricerca di un uomo misterioso di cui in realtà riflettendo potrebbe conoscere perfettamente l’identità, ma non basta.

Una pellicola che potrebbe essere molto più riuscita invece spinge l’acceleratore in modo da giungere a un finale che nella testa era molto più scioccante di quello che poi risulta. Non memorabile e neppure necessario, peccato.

 

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.4