K.O. – recensione dell’action movie francese Netflix
K.O. è un'opera affascinante e illuminante, visivamente convincente ma con un latente potenziale mai raggiunto.
K.O. di Antoine Blossier è un film che si muove nel sottobosco emotivo della colpa e della redenzione, travestito da thriller d’azione, ma con il cuore di un dramma esistenziale. Al centro della narrazione c’è Bastien, ex campione di MMA interpretato da Ciryl Gane, ritiratosi in un volontario isolamento dopo aver accidentalmente ucciso un avversario sul ring. Quando il figlio di quest’ultimo scompare, Bastien si ritrova spinto a riemergere dal proprio esilio interiore per rimettersi in gioco — non solo contro i criminali, ma soprattutto contro sé stesso.
K.O. e la regia che gioca sui colori

La regia di Blossier si appoggia a una fotografia cupa e desaturata, che rende Marsiglia una città-simbolo, corrosa, disillusa, piena di ferite che pulsano sotto la pelle dell’asfalto. In questo scenario frammentato, la presenza di Bastien è silenziosa ma potentissima. Ciryl Gane, pur non essendo un attore di formazione, regala una performance viscerale: il suo corpo parla più delle sue parole, e ogni movimento, ogni respiro, sembra raccontare il peso del dolore. Bastien è un uomo che non cerca redenzione con la voce, ma con le mani, con le ossa, con il sangue.
La sceneggiatura, però, non riesce sempre a sostenere la densità emotiva che vorrebbe evocare. Dopo un inizio convincente, la narrazione si appiattisce, rifugiandosi in snodi prevedibili e in personaggi secondari poco approfonditi. I villain del film sono funzioni, non persone: macchiette di un male generico, più funzionali alla tensione che alla verosimiglianza. Eppure, K.O. resiste, perché non punta tutto sull’intrigo o sulla sorpresa, ma sulla potenza tragica del suo protagonista.
Una poliziotta tenace
Accanto a Gane, Alice Belaïdi interpreta una poliziotta tenace, che si distingue per misura e realismo. Non c’è spazio per inutili derive romantiche: il legame tra i due è fatto di rispetto, di tensione non dichiarata, di silenzi che pesano. La loro relazione restituisce al film un’umanità necessaria, che bilancia la brutalità degli scontri e la durezza dell’ambientazione.
Un crepuscolo visivo che fatica a trovare la luce
Blossier gioca sul confine tra l’action urbano e il noir psicologico, ma lo fa con un passo esitante. Lodevole è la scelta di non inseguire il ritmo forsennato dei blockbuster americani, preferendo una tensione trattenuta, un uso misurato della violenza, quasi rituale. I combattimenti non sono spettacolo, ma confessione. Bastien non combatte per vincere, ma per espiare. Ogni pugno è un colpo al passato, ogni ferita un modo per sentire ancora qualcosa.
Tuttavia, questa tensione morale e visiva non sempre riesce a sostenersi per l’intera durata del film. Alcuni momenti sembrano rallentare eccessivamente, come se il regista avesse paura di osare davvero. Manca il guizzo, la discesa definitiva nell’oscurità. Il film, pur mantenendo una certa coerenza estetica e narrativa, sembra fermarsi sempre un passo prima della vertigine. Si percepisce la volontà di fare cinema d’autore con la struttura di un thriller popolare, ma il connubio non è sempre fluido.
K.O. – valutazione e conclusione

K.O. resta un’opera sincera, visivamente affascinante, in cui le intenzioni superano spesso i risultati. Un film che avrebbe potuto colpire con maggiore precisione, ma che sceglie di restare fedele alla sua malinconia di fondo. È la storia di un uomo che ha smesso di cercare la vittoria e prova soltanto a non cadere. In questo senso, Blossier firma un film che, pur nei suoi limiti, ha un’identità: non vuole piacere a tutti, ma restare addosso, come un livido che pulsa.