Knocking: recensione dell’horror svedese di Frida Kempff
Graffiante e imprevedibile, Knocking mostra il disagio di una donna a cui nessuno crede.
Knocking è un film che graffia e non lascia indifferenti. Segna il debutto al “lungometraggio di narrazione” di Frida Kempff, regista che si era sempre occupata di corti e di documentari. Siamo dalle parti dell’horror psicologico, per intenderci quello di un Shutter Island o di un America Latina.
Il film racconta la storia di Molly, che si trasferisce in un appartamento condominiale con l’obiettivo di ricominciare a vivere dopo essere stata ricoverata in un ospedale psichiatrico in seguito a un lutto. Però, qualcosa non va fin da subito nella sua nuova casa: Molly sente dei rumori strani provenire dal soffitto, come fosse il suono di nocche che bussano (di qui il titolo del film), e si convince che sia una richiesta d’aiuto da parte di una persona la cui vita è in pericolo. Inizia quindi la sua ricerca, ma dovrà affrontare gli altri condomini che non le crederanno e che rimetteranno in dubbio la sua sanità mentale.
Horror psicologico e colpi di scena in Knocking
Tutto il film gioca chiaramente con la condizione di instabilità psichica della protagonista. Noi spettatori siamo subito spinti a non crederle perché abituati allo svolgimento di film del genere: crediamo alla realtà che un personaggio mentalmente instabile ci mostra per poi renderci conto solo alla fine che quella realtà altro non era che il travestimento di una mente disturbata.
Siamo convinti che quel bussare contro il soffitto del suo appartamento sia solo nella sua testa, frutto di un’immaginazione traviata dal trauma. Ecco perché la scena finale colpisce in maniera ancora più forte: stravolge quello che non credevamo potesse essere stravolto. Senza entrare in dettagli da ‘spoiler alert’ ci limitiamo a dire che la percezione distorta e il delirio psichico ci sono, ma non sono patologia di chi si potrebbe immaginare.
Un film che funziona nonostante il basso budget
Knocking fa quello che dovrebbero fare tutti i film a basso budget: sopperire alla mancanza di mezzi con quello che i soldi non possono comprare, cioè una buona idea, una buona capacità di scrittura, una buona regia e una buona recitazione. Questo film può contare su tutte queste cose. In particolare, lodevole è il lavoro fatto da Frida Kempff dietro la macchina da presa. La camera è appiccicata alla protagonista, l’inquadratura strettissima e claustrofobica rende appieno il disagio della donna. Nella scena madre del film, in cui la protagonista insegue se stessa, la verità e lo spettro della sanità mentale, non perdiamo mai di vista il suo volto. Sembra quasi che sia lei stessa a reggere la telecamera e a puntarsela addosso come fosse una GoPro in un primo piano intensissimo.
C’è poca musica, non c’è quasi dialogo. Il film funziona solo attraverso le scelte di regia e grazie all’ottima prova recitativa di Cecilia Milocco in grado di trasmettere egregiamente la propria – quasi tenera – vulnerabilità psichica. Risultano notevoli e pienamente funzionali anche le scelte ardite di fotografia. La tavolozza di rossi, verdi e gialli sembra stonare in una Svezia che immaginiamo dominata da colori freddi. Proprio per questo alimentano la sensazione di fastidio e di straniamento. C’è qualcosa che non va, e lo percepiamo fin dalle prime scene del film grazie a ciò che ci viene mostrato. Ma da quel momento in poi non è più (solo) il contenuto, ma la forma – cioè regia, fotografia, recitazione, musica – che concorre a precipitarci in una spirale che ci lascia increduli e senza respiro.