Io sono Rosa Ricci: recensione del film con Maria Esposito
Io sono Rosa Ricci, il film con Maria Esposito, è una coraggiosa presa di distanza da Mare Fuori, un film potente e di grande intrattenimento.
C’è qualcosa di raro, quasi spaventoso, nel guardare un personaggio che conosciamo già e vederlo nascere davanti ai nostri occhi. Nel film di Lyda Patitucci, al cinema dal 30 ottobre 2025, Io sono Rosa Ricci, non ritroviamo la ragazza che Mare Fuori ha trasformato in icona: ritroviamo la carne prima del simbolo, l’adolescente prima del mito, l’essere umano che ancora non ha imparato a farsi corazza.
Patitucci — che di sguardi e corpi femminili sa leggere i chiaroscuri — costruisce un film che è più ferita che racconto, più tensione che trama. Io sono Rosa Ricci non è un semplice prequel, ma un esercizio di sguardo sul diventare: il momento preciso in cui la paura si muta in potere e la sopravvivenza in scelta.
Il respiro della città e dell’isola in Io sono Rosa Ricci

Napoli non è protagonista, ma fantasma. La regia la mostra di scorcio, come un ricordo già corrotto. La vera scena si sposta altrove: in uno spazio sospeso, un’isola che è carcere e specchio, ventre e confine. Qui Rosa (Maria Esposito) viene privata di tutto — famiglia, sicurezza, nome — e in questa sottrazione scopre la prima forma di libertà.
La regista non cerca la cronaca, ma l’anima. Ogni inquadratura è un gesto emotivo: le mani che si stringono sul ferro, la pelle tagliata dalla luce, il mare che vibra come un respiro interrotto. È un film che non spiega: suggerisce, scava, ferisce.
Il ritmo non è lineare e non vuole esserlo. Le sequenze scorrono come ricordi compressi, flash che si scompongono tra rabbia e tenerezza. L’effetto è a tratti disorientante, ma volutamente. Perché Io sono Rosa Ricci non cerca di raccontare cosa accade, ma cosa resta.
Maria Esposito: il corpo come linguaggio

Maria Esposito si conferma interprete magnetica. In questa versione giovane e ancora acerba di Rosa, lavora sull’invisibile: il silenzio, il respiro, la postura.
La sua è una recitazione che nasce dal corpo — non urla, trattiene. Ogni sguardo è una difesa, ogni gesto una promessa di sopravvivenza. C’è qualcosa di animalesco nella sua energia, ma anche una fragilità infantile che trapela nei momenti più spogli.
Non tutto però trova la stessa intensità: a volte la scrittura le chiede di correre, di bruciare tappe che il suo volto non ha ancora metabolizzato. Ma quando la macchina da presa la lascia ferma, nel silenzio o nella paura, la verità ritorna: e la scena si accende
Luci, costumi, colonna sonora: estetica come linguaggio
Il film vive di contrasti: luce e buio, eleganza e sporcizia, prigione e fuga.
La fotografia gioca un ruolo narrativo fondamentale. I toni caldi della casa paterna — dorati, finti, saturi — si dissolvono nella luce cruda dell’isola, dove il sole ferisce e la notte non perdona. Patitucci sceglie il realismo sensoriale: non la bellezza della luce, ma la sua violenza. Ogni cambio di temperatura cromatica segna una tappa del percorso di Rosa, come se la pelle reagisse prima della mente.
I costumi accompagnano lo stesso viaggio. All’inizio sono armatura: jeans perfetti, giacche rigide, simboli di appartenenza. Poi diventano spogli, infangati, vivi. La stoffa perde forma, come la certezza del mondo che Rosa conosceva. È un linguaggio visivo che racconta la metamorfosi meglio di molte parole.
La colonna sonora, invece, è essenziale, quasi invisibile. Le musiche originali di Giordano Corapi si insinuano come un battito lento: minimalismo elettronico, corde spezzate, rumori che diventano ritmo. Non accompagna le emozioni: le contraddice. Niente pathos, niente indulgenza melodrammatica. Il suono è terra, vibrazione, corpo.
Solo nei titoli di coda arriva la voce, quella ruvida di Raiz, interprete carismatico e fondamentale nel racconto di formazione del personale Rosa, che chiude il cerchio con una canzone che sa di sangue e perdono.
Il linguaggio del potere e della perdita
Il film è soprattutto un discorso sul potere: quello che erediti e quello che scegli.
Rosa nasce dentro un cognome che pesa, dentro una famiglia che la chiama “principessa” ma la tratta come pegno. E allora il film diventa la cronaca di un distacco: come si diventa se stessi quando la propria identità è già stata scritta da altri.
Lyda Patitucci non la racconta come una martire, ma come una creatura in costruzione. Non c’è mai pietà nel suo sguardo, ma comprensione. Anche nei momenti più brutali, il film conserva una dignità umana che lo distingue dal puro gangster-movie. Io sono Rosa Ricci è una commistione di generi ed è, per la sua riuscita, un bene. Rosa è nucleo e centro, smarrita e feroce. Rosa non vuole vendetta: vuole esistere senza chiedere permesso.
È qui che la regia trova i suoi momenti più alti: nei silenzi lunghi, nei campi larghi che fanno respirare la solitudine, nei dettagli che diventano confessione. La violenza c’è, ma non è pornografia: è una grammatica di sopravvivenza. E ogni ferita è una parola
Una questione di equilibrio
Non tutto però funziona. La seconda parte accelera troppo, compressa dal bisogno di chiudere. Alcune relazioni secondarie restano appena abbozzate, e la progressione psicologica perde coerenza. Il montaggio nervoso, sebbene coerente con l’urgenza del film, finisce a tratti per spezzare l’empatia.
Eppure, nonostante i limiti, Io sono Rosa Ricci resta un film potente. Non per la saga che rappresenta, ma per la prospettiva che porta: uno sguardo femminile che racconta la violenza senza compiacersene, e una protagonista che si emancipa non perché salva, ma perché sopravvive
Io sono Rosa Ricci: valutazione e conclusione
Io sono Rosa Ricci è un film che cammina sulla pelle, non sulla trama. È ruvido, imperfetto, a tratti acerbo, ma pulsante. Lyda Patitucci dirige con mano ferma e cuore inquieto, costruendo un racconto che non spiega, ma restituisce il battito della nascita di un’identità. Maria Esposito tiene tutto sulle spalle, trasformando la fragilità in arma, la paura in coscienza.
Nel mare agitato del cinema italiano, questo film non è un porto sicuro, ma un’onda. E forse è giusto così: Rosa Ricci non doveva salvarsi, doveva solo imparare a restare a galla.