Il derattizzatore: recensione del cortometraggio di Wes Anderson

La recensione de Il derattizzatore, il cortometraggio per la regia di Wes Anderson disponibile su Netflix.

Arriva su Netflix, il 29 settembre 2023 Il derattizzatore, terzo adattamento (dei quattro) di Wes Anderson, basato sulle opere di Roald Dahl, dopo La meravigliosa storia di Henry Sugar e Il Cigno. La storia proviene dalla raccolta di Dalh, Il cane di Claud. Un giornalista (Richard Ayoade), un meccanico, Claud (Rupert Friend) e l’Uomo dei Topi (Ralph Fiennes) si muovono nella squallida provincia dove si trova il Wisteria Cottage – dove davvero Dahl aveva vissuto tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 -, con una strada in ghiaia, una pompa di benzina e poco altro, dall’altra parte c’è il granaio che spesso viene inquadrato dalla camera fissa. Il derattizzatore prende vita dalle parole di Richard Ayodae, forza trainante di questa storia che spinge lo spettatore a guardare, abbattendo la quarta parete. Il corto è un meraviglioso inno alle stranezze e al surreale senso di meraviglia narrativa dell’autore, è semplice ma incredibilmente coinvolgente, e lo stile di Wes Anderson aiuta il testo a brillare ancor di più.

Il derattizzatore: la visione di un regista e il racconto di un autore

Il giornalaio: “Nel pomeriggio l’Uomo Ratto raggiunse la stazione di servizio”

Il derattizzatore è arrivato per fare il suo lavoro, sa farlo perché lo conosce e lo dice ai presenti e a noi spettatori che osserviamo spaventati e affascinati. Già dall’andatura, dai piccoli occhi, dal fisico, dal volto, dai denti, tutto fa pensare proprio ad un topo. Incredibile, strano, pazzesco. Chi prende i topi è appunto l’Uomo Topo nelle fattezze, nel corpo. Ralph Fiennes che interpreta l’Uomo dei Topi offre una performance deliziosamente sinistra nei panni di un killer professionista di roditori inviato dall’Ufficio Sanitario per liberare un pagliaio dall’infestazione di topi. Il derattizzatore è più un racconto su di lui e sulla sua natura animalesca che sul suo impiego.

Il giornalaio: “Devi essere quasi un ratto anche tu”

L’Uomo Ratto: “Ora ha capito, ora sì che ha detto bene, un bravo Uomo Ratto deve essere più ratto di qualunque altra cosa al mondo, più astuto perfino di un ratto e non è facile a farsi.”

L’Uomo Ratto racconta, spiega, si accende quando il giornalista usa le parole giuste, porta i due uomini nel suo mondo, trasforma ogni gesto che compie come fosse una rappresentazione teatrale, uno spettacolo, per dimostrare al narratore – che di volta in volta abbatte la quarta parete, elemento tipico del cinema di Wes Anderson – che è il migliore nel suo lavoro. Quando il metodo dei metodi non funziona, ovvero non tutti i topi del pagliaio mangiano l’avena avvelenata, l’uomo è stupito, arrabbiato, come se si fosse compiuto un oltraggio, proprio a lui è capitata questa cosa, proprio a lui che crede di essere intelligente più di un topo. Così, ha una sorpresa per loro, tira fuori da una tasca un topo vivo – ne porta sempre uno o due – e lo mostra agli uomini, dall’altra un furetto, si toglie la giacca, mette i due roditori dentro la maglietta. Mentre Claud e il narratore guardano disperati, il furetto che insegue il topo dentro la maglietta, tutto all’improvviso si ferma. L’Uomo dei Topi tira fuori il furetto illeso, ma il topo è morto. Come si fa a non avere paura di una scena del genere?

Il corto si dimostra di minuto in minuto splendido esempio della visione di un regista che si fonde audacemente con i colpi di scena aperti dell’autore di riferimento, Anderson gioca con i colori, con le geometrie, con i personaggi che ricordano il suo mondo e nel punto in cui la storia prende una piega più sinistra, non trova risposte facili.

Un uomo che è in tutto e per tutto un ratto

Se in Il Cigno Anderson usa il piano sequenza per narrare la sua storia, qui i movimenti sono pochissimi, la macchina da presa si concede poche stravaganze, poche fantasie, il suo occhio richiama lo stile classico del regista.

l’Uomo Ratto: “Dove sono questi ratti?”

Il giornalista: “La parola ratti gli uscì come un suono ricco e fruttato come se facesse i gargarismi con del burro fuso” 

Ciò che prima viene solo accennato si fa poi certezza l’Uomo Ratto è proprio un topo, l’aspetto fisico del derattizzatore assomiglia esattamente a quello dell’animale che cattura perché pensa che per catturarli sia fondamentale comportarsi come loro. Appare chiaro che il protagonista è fondamentalmente un paria, un emarginato che non potrà mai superare la barriera socioeconomica ed è a caccia di topi da così tanto tempo che anche lui è diventato come loro, costretto a nascondersi. Di minuto in minuto ciò che sembra solo una stranezza diventa una certezza fino ad esplodere nel finale.

L’uomo parla con passione dei topi, di come cacciarli e ucciderli, quando entrano in scena poi non sono così spaventosi, anzi ad essere spaventoso è l’uomo. Sfruttando la conoscenza che Anderson ha di animazione e stop motion, Wes Anderson rappresenta il ratto riportando alla memoria Fantastic Mr. Fox -che trae ispirazione sempre da un romanzo dello scrittore gallese -, che diventa nemico in “carne ed ossa”, prima era solo evocato nelle parole dei personaggi, e riesce ad essere molto forte.

L’uomo tira fuori un altro roditore, un altro colpo di teatro che smuove la storia. Diventa una narrazione sempre più terrorizzante perché emerge, passo dopo passo, fino a che punto si spinge l’Uomo Topo quando la vita di un ratto è nelle sue mani, in fin dei conti quel topo, che del ratto ha davvero poco, tenta di vivere in pace nel mondo degli uomini.

Un cambio di tono in cui Anderson non si perde bensì riesce a parlare la sua lingua con una grammatica un po’ diversa

C’era qualcosa di terribilmente magnetico in quella scena, ero incapace persino di muovermi

A questo punto il clima cambia, inizia un secondo atto. Quella che era solo un’atmosfera spaventosa causata da un personaggio un po’ ambiguo, diventa una certezza, i colori pastello alla Wes Anderson lasciano spazio all’oscurità. Anderson mette in scena la sfida primigenia, tipo quella tra Davide e Golia, e fa assumere a Rupert Friend – che prima interpretava Claud –  il ruolo del topo, e lui e Fiennes combattono senza esclusioni di colpi. Le luci si spengono, tutto è più cupo, la scena si arricchisce di un suono diverso e di una palette di colori molto più freddi. Il sinistro e il crudele prendono, o meglio potrebbero prendere il sopravvento, ma, a questo punto, il giornalista-narratore della storia chiude gli occhi perché tutto è troppo spaventoso da guardare e noi con lui. Anderson riporta immediatamente la narrazione sui binari classici. L’Uomo Ratto se ne va lasciando negli astanti disgusto e paura.

Il derattizzatore: conclusione e valutazioni

Il derattizzatore è un corto delizioso e bizzarro; se avessimo dovuto pensare ad un regista per trasporre le opere letterarie di Dahl, non avremmo potuto pensare a un regista migliore di Anderson. Il lavoro tra l’occhio cinematografico e l’opera originale va di pari passo e il risultato è un’opera che conquista e intrattiene. L’effetto straniante e folle esplode nel finale ricostituendo l’equilibrio, Il derattizzatore funziona come un trucco di magia oscura, aiutato dalle inquadrature simmetriche di Anderson e dalla sua messa in scena minimalista.

 

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.9