Home Sweet Home: recensione del film di Annika Mayer dal TSFF35

Il film Annika Mayer solleva importanti questioni sulla violenza patriarcale nella storiografia contemporanea.

Fin dal titolo Home Sweet Home c’è un gioco, tanto doloroso quanto finissimo, in quel casa dolce casa c’è un paradosso, in realtà quella dimora non è per niente luogo accogliente, ma è il luogo della paura. Annika Mayer, regista del documentario in concorso al Trieste Film Festival 35 (19-27 gennaio 2024), anteprima italiana, punta proprio sul mostrare cosa si nasconde dietro alle parole e alle finestre delle case, quanto la realtà spesso non sia onesta e sincera, quanto ciò che appare non è poi ciò che è veramente. Mayer, anche montatrice del film, racconta con questo documentario la vita di Rose, la nonna paterna che ha subito per molti anni le violenze domestiche da parte del marito, Rolf, nonno della regista. Il quadro è chiaro: Rolf, affascinante e di bell’aspetto, veterano di guerra che ha prestato servizio nella Wehrmacht come artigliere e in seguito proprietario di successo di un’azienda di buste nel sud della Germania, ha 13 anni più di Rose, proviene da una famiglia benestante, spinta dai suoi stessi genitori ad abbandonare la scuola per non perdere una grande opportunità, il matrimonio.

Home Sweet Home: un complesso e doloroso documentario sull’invisibilità della violenza domestica

Mayer lo dice chiaramente, il suo film è un documentario sull’invisibilità della violenza domestica, nonostante il titolo, nonostante l’incipit, festoso e allegro dietro cui si nasconde molto di più. La regista intervista la nonna, le chiede con tatto e delicatezza del passato, con passo felpato e senza troppi strappi, entra nella sua vita, nei ricordi della giovane Rose, in balia di una famiglia che la voleva sposa e non studentessa – come lei avrebbe preferito – e poi di un uomo, poi marito più grande di lei.

Il documentario lavora su due piani, da una parte, i filmini, Super 8, prima in bianco e nero, poi a colori, le fotografie, i documenti, dall’altra Rose, il suo volto, le sue parole, le sue mani, tutto accompagnato da Mayer che le pone dei quesiti utili a costruire i fatti. Rolf e Rose sono i nonni della regista, Ernst, uno dei due figli, è suo padre, Frank, suo zio, verso cui ad un certo punto l’ira di Rolf si scaglia perché i due bambini tentano in ogni modo di proteggere la madre.

Non è un documentario qualunque, quello che lei narra è la sua storia che lei conosce – anche se per i racconti, anche se per i ricordi di lei bambina -, quella della sua famiglia, quel tipo di famiglia perfetta di una Germania occidentale, del dopoguerra che si rappresenta al meglio di fronte agli altri, il brutto, lo sporco, le ombre devono essere messi da parte. I filmini danno il senso del tempo, quei meravigliosi anni ’50 e ’60, i meravigliosi anni del miracolo economico tedesco, mostrano ciò che tutti vorrebbero vedere, la gioia, la ricchezza, i bei momenti, le gite, il mare, le scampagnate. Si mostra ciò che si vuole che si veda.

Home Sweet Home: Mayer realizza un film in cui la protagonista evidenzia le ombre di un matrimonio e sottolinea quanto la famiglia a volte sia fatta di macerie

Basta poco però, lo dice la protagonista con voce ancora tremante, per età ma anche perché quella a cui Rose sta assistendo è la sua vita, non i filmini di qualche sconosciuto, e quell’uomo che sembra affascinante e sorridente, sbotta, o in quel momento, o più tardi – avrebbe tenuto la rabbia in caldo per poi farla esplodere in seguito. Rose impara a conoscere anche i piccoli movimenti del viso, quegli infinitesimali indizi dell’inferno che stava per aprirsi e inghiottirla e lei indica quei momenti e Mayer li sottolinea con il ralenty, con il suono atonale e una colonna sonora distorta proprio per evidenziare gli attimi in cui Rolf diventava violento. Probabilmente senza le parole di Rose, nessuno si sarebbe immaginato questo, perché quello spasmo, ora anche per lo spettatore spaventoso, sembrava solo un sardonico gioco con la moglie che stava inquadrando. 

La storia di Rose che rappresenta perfettamente l’isolamento di cui soffrono le vittime di violenza, è orribile, spaventosa, tanto quanto gli abusi domestici che si fanno sempre più crudeli e pericolosi. La violenza è sempre più ingestibile e la casa per Rose e, in seguito, anche per i suoi figli, non è un luogo sicuro ma una prigione da cui è impossibile fuggire (il suo pensiero erano i figli, le preoccupazioni sugli effetti di una separazione su Ernst e Frank, la paura di non trovare persone a cui appoggiarsi).

Tutto si gioca proprio sul cortocircuito tra immagini e parole, tra ciò che lo spettatore (quindi la società) vede e ciò che avveniva subito dopo, nascosto da tutto e da tutti, in fin dei conti è sufficiente indossare un maglione a collo alto per celare i lividi intorno al collo. Rose, il suo corpo che parla ancora nonostante le ferite se ne siano andate, sono centrali e infatti è lei a parlare al pubblico, solo lei, lei guarda, parla, racconta ciò che ricorda, ciò che lei sa, si scusa ancora oggi per qualche suo atteggiamento che poteva aver indispettito Rolf, prova ancora sensi di colpa che rivivono ancora tra una parola e l’altra. 

Home Sweet Home: valutazione e conclusione

Mayer – che ha conseguito un dottorato di ricerca in antropologia sociale – solleva importanti questioni sulla violenza patriarcale nella storiografia contemporanea, realizza un documentario intenso e necessario in cui si mostra una vittima, una sopravvissuta alle violenze domestiche che non si scherma, si racconta senza troppe barriere, aiutata anche dallo sguardo della nipote – la regista sottolinea che all’inizio pensava che la nonna avesse qualche ritrosia nel ricordare, invece si stupisce ancora di averla vista pronta ad aprire questo difficile libro. Home Sweet Home pone al centro Rose, la sua storia, i suoi sentimenti, ciò che prova rispetto al passato, ciò che sente oggi, lei è la narratrice e lei diventa la persona con cui il pubblico stringe un legame, il pubblico/società sente il profondo e spaventato sentire di una vittima. Se all’esterno il nucleo familiare Mayer soddisfa tutte le aspettative di una vita di successo all’inizio della Repubblica Federale – due figli, una casa in campagna, vacanze estive e invernali, la moglie in casa, il marito di successo nella carriera – i ricordi di Rose rendono visibili le rotture e le storture di questa immagine ideale. Rose assurge a metafora di tutte quelle donne che non ci sono più, di quelle che sono sopravvissute, di quelle che sono ancora imbrigliate in quel gorgo. Mayer realizza un documentario che toglie le forze e prende a schiaffi per la potenza della voce della sua protagonista.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Sonoro - 4
Emozione - 3.5

3.8