TSFF 2021 – El Nido: recensione del film di Mattia Temponi

Horror e fantascienza nell'opera prima di Mattia Temponi con Blu Yoshimi e Luciano Cáceres.

Quattro mura. Dentro al sicuro, fuori il mondo spaventoso e cattivo. Sono queste le spinte di El Nido, il primo lungometraggio di Mattia Temponi, anteprima mondiale al Trieste Science+Fiction Festival (27 ottobre-3 novembre 2021), in concorso per il premio Méliès.

El Nido: un’opera prima, un po’ horror e un po’ fantascientifica

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“Io non sono la mia malattia, sono ancora una persona”

Sara (Blu Yoshimi) e Ivan (Luciano Cáceres), due sconosciuti. Lei giovane e figlia della borghesia, infetta, lui, volontario, pronto a curarla. Rinchiusi insieme dentro un rifugio durante una quarantena. El Nido porta al centro una storia che pulsa ancora sotto la nostra pelle, che è incisa nel nostro “codice genetico” e pensare che Temponi ha lavorato a questo soggetto prima della pandemia, prima del distanziamento sociale, delle mascherine, della paura dell’altro che ha rinchiuso ciascun individuo in un bozzolo che rassicura ma al tempo stesso esclude e limita. Quella che sarebbe dovuta essere un’opera un po’ horror e un po’ fantascienza, una sorta di 28 giorni dopo che tracima in Aspettando Godot – come dice lo stesso regista -, è diventata lo specchio del mondo, una diapositiva di ciò che di li a poco sarebbe caduto su di noi come una mannaia: il Covid. El Nido è una storia semplice: due personaggi, bloccati sempre nello stesso luogo, asfittico e scuro, ciascuno con le proprie domande, i propri dubbi, le proprie paure, le proprie vite.

Sara e Ivan sono due sconosciuti, non conoscono nulla l’uno dell’altra – vita, famiglia, sogni-, lei sa solo che deve affidarsi e fidarsi di lui che sa come dosare i medicinali, preparare, disinfettare, cosa iniettare. Le loro giornate sono cadenzate da piccoli, stanchi rituali, utili e necessari per sopravvivere e curare: la giovane deve mettere da parte le resistenze di chi non accetta la propria condizione – aveva sentito parlare del virus a scuola ma è tutto differente quando tocca il proprio corpo e il proprio fisico -, l’uomo, chiamato supereroe ironicamente e dolcemente da Sara, si dà completamente alla causa con abnegazione spaventosa e glaciale. I due parlano, si aprono, convivono e incominciano a confrontarsi e la loro si fa relazione padre/figlia, amici, compagni, uomo/donna. Dietro a quella porta chiusa c’è il dramma di chi vorrebbe scappare e di chi vuole custodire, ogni cosa si compone in un nido, in una prigione, tra costrizione e necessità.

Temponi usa la fantascienza e l’horror per far emergere la contemporaneità e le sue verità e le sue ombre, e per farlo cambia il punto di vista e decide di concentrarsi su quello del mostro, ma a questo punto emerge una domanda: chi è il vero mostro? Che poi si declina in: chi è la vittima e chi il carnefice? La vittima è Sara, ormai infetta, controllata costantemente da Ivan o Ivan, volontario completamente immerso nella cura e salvezza dell’altra? Oppure tutto ciò che viene narrato/mostrato non è la verità e c’è qualcosa di diverso nascosto sotto il tappeto?

El Nido: una storia distopica che è drammaticamente intrisa di realtà

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Il film non racconta il virus del Covid – nonostante nel film il regista abbia dovuto fare i conti con il virus, inserendo mascherine, igienizzante mani, terminologie e strumenti che hanno fatto e fanno parte della quotidianità – ma narra uno altrettanto pericoloso che trasforma, a poco a poco, gli infetti in bestie feroci e irrazionali, uno zombie di oggi – solitamente nei film in cui si parla di zombie non viene mostrato il percorso ma la trasformazione rapida. L’infetto è allontanato, rinchiuso per timore che (si) possa fare del male: Ivan nasconde tutti gli oggetti pericolosi in modo che la ragazza non possa compiere qualche gesto inconsulto. Sara e il suo corpo cambiano: si riempie di piaghe purulente, la pelle si slabbra, aggredisce Ivan, inizia ad andare in apnea perché il respiro le si spezza nel petto, viene sorpresa da convulsioni che la scuotono, si contorce e urla tutte le parole più irriguardose possibile. Dal canto suo Ivan (Romero, non è un caso) comprende, cura, addolcisce le ruvidezze e asperità di chi soffre e per questo si trasforma, si trasfigura. Quel nido del titolo non è ventre materno in cui rifugiarsi, è invece luogo matrigno che diventa inospitale, spaventoso; in una sorta di parallelismo inquietante, come nella realtà, anche nel film di Temponi, si mostra quanto ad un certo punto, durante la chiusura, emergano anche i lati più disturbanti e orrorifici dell’animo umano e le situazioni più angoscianti: la violenza domestica- una delle piaghe che durante la nostra pandemia è stata più purulenta che mai -, il controllo sull’altro, il sopruso.

El Nido si costruisce come un’inquietante dissertazione sulla paura, un horror che per aderenza con la realtà potrebbe quasi essere di stampo documentaristico – Sara e Ivan ipotizzano sull’origine di quel virus, chi l’ha creato? quale è la causa? -, una cronistoria delle tappe del lockdown che ha riguardato ciascuno – l’ansia, la non accettazione, la rabbia -, una prigionia che ha trasformato l’esistenza con protocolli utili e necessari.

Una storia che tocca le ferite di molti

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El Nido è un’inquietante opera prima, una storia che poi tanto fantascientifica non è, che riporta a galla molto del vissuto, e nonostante si tratti di zombie e di nidi claustrofobici, di vittime potenti e carnefici crudelissimi o di vittime bestiali e carnefici salvifici, riapre le ferite che ancora sanguinano. Temponi con forza e vivacità ci riporta indietro nel tempo, lasciando spesso turbati e scossi, riproponendo molti degli stilemi del cinema di genere ma che acquistano ancora più forza perché quella paura lo spettatore l’ha provata, quella violenza è stata narrata, quel dramma è difficile da cancellare.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.3