Dust, la vita che vorrei: recensione e streaming del documentario

DUST, la vita che vorrei non è un cortometraggio. Non è nemmeno un documentario, e non è teatro. DUST è però un insieme di tutto questo, mescolato a tanto cuore, a tanta passione.
Il progetto nasce tra le mura dell’Istituto Cottolengo di Torino, con otto persone –malati fisici e mentali- chiamati a mettersi alla prova, a mostrare agli altri, e a loro stessi, quello che la loro vita è stato, e quello che la loro vita poteva essere.
Chiusi tra quelle mura per cinquant’anni, possono quindi uscirne, ora, con la fantasia. C’è chi si è visto rubare la fidanzata dal fratello, chi non si è mai ripreso dalla morte dei genitori, chi desiderava e desidera allenare una squadra di calcio, chi andava a donne. C’è chi ancora si mette nei panni del Charlot di Charlie Chaplin, chi di un giudice incomprensibile, chi di una sposa, il tutto in scene e scenette brevi, certo, ma dal gran significato, che mostrano e descrivono, in ambienti sontuosi o naturali, in abiti logori o eleganti, i loro sogni.
Tutti hanno dovuto rinunciare, ma, rubando loro le parole, questo non significa non essere felici, oggi, per quello che hanno.

E sono progetti simili ad aiutarli, senza pietismi o retorica. Sette uomini e una donna che sperimentano e ricordano, davanti alla macchina da presa di Gabriele Falsetta che li inquadra, li riprende. Quello che potrebbe essere un documentario, o un cortometraggio o del teatro amatoriale (amatoriale però non è). Basterebbero queste riprese, con il punto di vista fermo, con una fotografia altamente sognante e geometrica a farci cambiare idea.

Dust, la vita che vorrei: un documentario sincero per scavalcare le mura della malattia attraverso la fantasia

In 20 minuti appena, entriamo così anche noi tra le mura del Cottolengo, e ne usciamo, veniamo chiamati ad osservare, a giocare, a ridere ed emozionarci con Speranza Sottomano, Remo Gardano, Giovanni Bina, Antonio Negro, Virginio Peano, Paolo Mantovani, Gilberto Girotto e Renato Alessandria. Ad aiutarli, oltre al regista Falsetta, Barbara Altissimo, dal cui testo teatrale questo cortometraggio che cortometraggio non è, si ispira.
Presentato all’interno della sezione “Spazio Torino” durante il 33esimo Torino Film Festival, DUST riesce a raggiungere senza fatica  i suoi obiettivi: quello di far evadere i suoi protagonisti, con il corpo e con la mente da una prigione in cui sono chiusi da cinquant’anni, e quello di colpire il pubblico, che non può non emozionarsi davanti a un qualcosa di così diretto e allo stesso tempo forte.

Attraverso questo percorso di teatro innovativo, che si trasforma in un film, in un documentario, le parole prendono vita, così come i ricordi, i sogni. E anche se per poco, anche se quei 20 minuti passano in fretta, a loro ci si affeziona fin da subito. È il potere del cinema, il potere di un prodotto onesto e sincero, curato nel dettaglio, che alla passione di quanto racconta mette sullo stesso piano anche il come lo racconta.
E così, quelle vite in cui la polvere si è depositata, risplendono nuovamente, vengono scosse, richiamate a raccontare e condividere la vita voluta, desiderata, a ricordare l’abbandono, il senso di disagio, quella madre, quei fratelli, che mancano e continuano a mancare, che lì li hanno lasciati.
Ma a volte basta poco, basta un cuffia piena di fiori, basta una musica su cui ballare, basta una sala da riempire di suoni, basta una gara tra amici per far tornare l’allegria, per scostare un po’ di quella polvere e tornare a sorridere. O non smettere di farlo.

Guarda qui sotto il documentario completo

Giudizio Cinematographe

Regia - 2.7
Fotografia - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 3

2.8

Voto Finale