Dangerous Animals: recensione dell’horror di Sean Byrne
Byrne, nel suo horror di fine estate, scende negli abissi dell’immaginario collettivo, ma lo fa seguendo regole proprie e immaginazioni singolari senza l'evocazione di spasmi visivi, echi acustici dissonanti e corpi disgregati; rifiuta ogni compromesso di accessibilità e interpretazione e segue codici più traducibili e canonici
Cinema horror d’autore: trasmutazione del visibile; organismo onirico e febbrile, una creatura che disarticola le strutture del thriller psicologico fino a dissolverle in un magma pulsante, un corpo ferito che implode e respira come l’eco spettrale di un trauma ancestrale; furia iconoclasta, trasfigurata in un organismo onirico che implode e rinasce in stato larvale, come un trauma irrisolto. Sean Byrne in Dangerous Animals – Il vero predatore non è in acqua, al cinema dal 20 agosto 2025 con Midnight Factory, non incuba un incubo estetico in cui l’ombra non è negazione di luce, non è presenza tangibile, agente attivo, spettro denso che infesta lo spazio e lo plasma in architetture psichiche ma resta incastrato tra la teoria estetica del genere e l’incapacità dell’idea visiva rispetto a una parvenza cinematografica assolutamente disciplinata e fittizia.
Critica Cinematografica: una liturgia del perturbante

La sceneggiatura di Dangerous Animals è un cinema post-narrativo, post-umano, post-visivo. Una liturgia dell’oscuro che restituisce alla settima arte il suo volto più puro: quello dell’abisso. Dangerous Animals è un’apnea nell’immagine-matrice, un cinema che non articola significati ma li partorisce in forma di spasmo visivo. e in questo il film riesce.
Dangerous Animals è un affondo nell’immagine-abisso, un dispositivo sensoriale che non racconta ma lacera, partorendo visioni come convulsioni del non detto; un cortocircuito dell’immagine-matrice, un cinema che non trasmette significati ma li genera come sintomi, come echi affettivi di un inconscio filmico. La resa visiva di Dangerous Animals, differentemente, non è un’immagine-sintomo che pulsa come un sogno sofferto; non costruisce senso, ma lo partorisce tra le convulsioni dell’inconscio visivo. Dangerous Animals non è un’invocazione filmica allo spettro dell’immagine originaria: non film, ma possessione ottica, espulsione visionaria dell’informe; è un’apertura nella grammatica del visivo, una frattura nel linguaggio narrativo che sostituisce la rappresentazione con l’allucinazione strutturale, troppo astratta, troppo inconsistente, troppo poco elaborata.
Tentativi del trauma cinematografico attraverso narrazioni e regie differenti

La narrazione di Dangerous Animals abdica alla logica per rigenerarsi in uno stato liminale, in cui la visione non perseguita ma insegue. La materia filmica pulsa di un’inquietudine organica: l’immagine non rappresenta, ma emula. Ogni frame è tessuto nervoso, una concrezione di dolore visivo. L’ordito visivo si trasmuta in un organismo pulsante, un virus che si insinua nei labirinti del sistema nervoso dello spettatore, facendo esplodere le barriere della percezione in un’impalpabile invasione. La macchina da presa rispetta la volontà di regia e si limita a guardare, divora ma non incarna, non smantella l’ospite predatore che si insedia nelle viscere dello sguardo per strappare l’illusione della distanza e trasformare ogni fotogramma in un’eco corporea.
In questo abbraccio carnale non ricevuto, l’eredità del cinema di Gaspar Noé, (implicitamente invocato) non risuona come citazione e neppure come sussurro ancestrale che avrebbe potuto pungere la pelle, attraversando la trama. Il montaggio si dispiega come un rito sciamanico, non tessendo fili ma squarciando tessuti temporali: il tempo si frantuma in una spirale senza fine, un ritorno ossessivo e traumatico che potrebbe somigliare ai vortici onirici di Lynch e le allucinazioni organiche di Żuławski. Potrebbe. Lo spazio implode in un ventre oscuro, non più contenitore ma crosta viva; l’immagine resta tale senza trasformarsi in epidermide sottile e permeabile, membrana vibrante attraverso cui filtrano scorie mnemoniche, visioni ematiche e pulsioni sepolte non rintracciabili.
Il difetto cinematografico come Corpo Infetto

Ma in Dangereous Animals è la composizione cinematografica che riesce a rendere l’apparenza superficiale del film qualcosa di interessante: il corpo narrativo diviene lingua segreta dell’indicibile, un alfabeto crudo inciso nelle fibre del dolore e dell’assenza. Il paesaggio interiore si dissolve in una traduzione scomposta di una crisi percettiva, trappole sensoriali che imprigionano e deformano. I luoghi — casa, stanza, strada — si sgretolano nella loro sostanza narrativa per mutare in proiezioni oniriche, spettri sfocati di un incubo che si avvita su se stesso in una spirale senza ritorno. Il suono, rarefatto e granulare, si allunga come un’onda tossica, un miasma che avvelena ogni silenzio e svuota ogni spazio di ossigeno. Non accompagna: contamina, corrompe, si insinua come un veleno sottile. La carne degli attori si frammenta in un gesto rituale, una lingua primordiale lacerata da una violenza che è semiotica, non sadica — un codice arcaico scritto con ferite aperte.
All’interno di questa estetica della lacerazione, la luce assume una funzione antagonista, non più rivelatrice ma ustionante; l’inquadratura, invece di dilatare lo sguardo, si fa dispositivo di clausura e soffocamento. Il montaggio si fa rituale psichico, reiterazione ossessiva, loop sintomatico che sospende il tempo narrativo e disorienta la percezione. Lo spettatore non è più destinatario passivo, ma soggetto sequestrato e invischiato in una spirale allucinatoria, in cui il cinema si sottrae alle logiche dell’intrattenimento per assumere la valenza di esperienza invasiva (in Antichrist, eros e thanatos si intrecciano in una vertigine impossibile da districare. Il corpo si fa palinsesto, superficie di incisioni sacrificali e rimozioni). L’idea di Dangerous Animals era quella di un organismo invasivo capace di insediarsi, infettare, dissolvere. Ma diventa trance, rito, visione acida che restituisce il cinema alla sua natura originaria di medium, portale di visioni ancestrali e incubi catartici: poco originale.
Dangerous Animals: valutazione e conclusione
Nell’epicentro cinematografico delle avanguardie sperimentali dell’horror d’autore contemporaneo, Dangerous Animals si configura come un oggetto filmico radicalmente elusivo, che decostruisce violentemente le coordinate narrative meno convenzionali senza utilizzare una poetica del collasso e dell’instabilità ontologica, desiderata e attesa dagli amanti del genere.
Sean Byrne non dirige una narrazione lineare, bensì mette in scena un trauma visivo e sensoriale, in cui il dispositivo cinematografico si trasforma in un apparato metapsichico; una macchina da presa che agisce come un utero ferito, incubatrice di immagini patologiche, malformate e visceralmente disturbanti. L’estetica del degrado e della contaminazione si limita a una forma, senza divenire cifra poetica e sintomo culturale: Byrne scende negli abissi dell’immaginario collettivo, ma lo fa seguendo regole proprie e immaginazioni singolari senza l’evocazione di spasmi visivi, echi acustici dissonanti e corpi disgregati. Byrne rifiuta ogni compromesso di accessibilità e interpretazione e segue codici più traducibili e canonici: Dangerous Animals sarebbe potuto essere un organismo filmico da abitare come incubo, da subire come possessione e da attraversare come una crisi esistenziale e formale. La prossima volta.
Dangerous Animals è il thriller di fine estate diretto da Sean Byrne, distribuito da Midnight Factory, al cinema dal 20 agosto 2025.