Climax: recensione del film di Gaspar Noé

Esasperando l’erotismo sprigionato dalla carnalità, Gaspar Noé scrive e dirige Climax (2018), il suo sesto e ultimo lungometraggio, diffuso in Italia a partire dal mese di settembre e riservato solamente in un circuito specifico di determinati eventi cinematografici.

Concentrandosi sull’analisi di un microcosmo asfissiante, circoscritto dai muri divisori di una scuola di danza abbandonata ed isolata dal resto del mondo, il regista argentino riduce all’osso la trama, concentrandosi unicamente sul resoconto di una notte di feste e di follia, dando vita ad una narrazione sospesa, che potrebbe apparire del tutto priva di riferimenti spazio-temporali; una narrazione in cui confluiscono riferimenti e omaggi espliciti alle personalità e alle pellicole – tra le quali vengono citate esplicitamente Un Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel, Possession (1981) di Andrzej Żuławski, Salò o Le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, La maman et la putain (1973) di Jean Eustache– che più hanno ispirato la realizzazione di questo lavoro.

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Climax: un’odissea negli inferi della psiche umana

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Trovando la sua essenza nell’espediente narrativo della ripetizione e dell’esasperazione, la narrazione condotta porta alla creazione di un horror psicologico presentato nella sua forma più pura, depurato dall’artificiosità della finzione e decontaminato dalla rigidità soffocante delle convenzioni del genere. Gaspar Noé trascina ed immerge il proprio pubblico all’interno di un incubo febbrile, ambientato in una dimensione dalle sembianze oniriche, in un’atmosfera surreale che – offuscata dall’ebbrezza e dalle sostanze stupefacenti – si presenta come uno sfondo allucinato davanti al quale i personaggi si aggirano con inquietudine, assenti, completamente fagocitati dalle allucinazioni della droga.

Perdendosi nell’evanescenza di un’illusione da lei generata, la razionalità oscilla tra immaginazione e realtà, incapace di distinguere il presente dall’assente, il visibile dall’invisibile, intrappolata in una pericolosa confusione che la conduce irrimediabilmente all’autodistruzione. L’allucinazione ingloba la psiche del personaggio, la digerisce e la trasforma, degradandola. L’individuo che apparentemente le fa da padrone, infine, soccombe.

Alienati a semplici spettatori, i protagonisti si limitano ad osservare il loro agire, impotenti e incapaci di imporsi sul fato. Profondamente attratti dal fantasma della morte, le vittime diventano contemporaneamente padroni e schiavi delle visioni generate dall’oscurità della loro mente, smarriti nella dannazione e costretti ad assistere alla realtà in un modo distaccato, come se si trattasse di un mondo mai conosciuto, fittizio, costruito da zero: un videogioco.

Se –come disse Bataille– il marchese de Sade si era essenzialmente appellato al cosiddetto «linguaggio della vittima» e Masoch a quello «del carnefice», in Climax si ricorre ad un’operazione di unificazione e di totale sintesi tra i due registri sopracitati: sfumando impercettibilmente, i confini dell’oppresso si confondono con quelli del suo oppressore. La psiche della perseguitato si identifica, trasformandosi, in quella di colui che perseguita, scambiandosi, confondendosi, capovolgendo il consueto rapporto gerarchico, dominato dalla supremazia del carnefice sulla vittima, subordinata, oppressa, annientata.

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La morale di Gaspar Noé è fondata sulla più profonda solitudine, declinata visivamente nella ripetuta adozione di primissimi piani –dove lo sfondo è spesso fuori fuoco–, il cui principale scopo è quelo di isolare l’individuo, evidenziandone l’isolamento e l’emarginazione. La natura ci fa nascere soli; non esistono rapporti di nessun tipo tra un uomo e l’altro; le catene delle convenzioni sociali vengono distrutte: viene eliminato ogni legame amoroso, un figlio viene ucciso –indirettamente– dalla madre, un fratello intrattiene un rapporto sessuale con la sorella.

Il caos si amplifica, condizionando anche lo spettatore che assiste a Climax: il pubblico perde ogni coordinata temporale e spaziale, entrando a sua volta in una dimensione diversa, dominata dalla presenza asfissiante di tante, troppe figure che —fisicamente distinguibili, ma prive di un’identità precisa— si sovrappongono, confondendosi all’interno della mente dell’osservatore. 

Climax: la forza dell’immagine e la danza come proiezione di una bestialità luciferina

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Mani che si intrecciano, creando figure suggestive celanti le più svariate illusioni pareidolitiche. Piedi che battono con forza sul terreno, che accarezzano la fredda superficie del pavimento. Corpi che si sfiorano. Corpi che ballano, sinuosi. Fulcro dell’intero cortometraggio, la danza si trasforma in proiezione della bestialità che caratterizza intimamente l’essere umano; in rappresentazione luciferina del proprio subconscio, irrequieto e incapace di trovare –e mantenere– l’equilibrio; in veicolo dello spirito dionisiaco, dell’intimo e lo spirituale; in traduzione corporea del proprio male psichico; in “un grido di liberazione di un cuore disperato avvolto nelle tenebre”.

Rifiutando totalmente il dialogo, la potenza evocativa dell’immagine –strumento di comunicazione per eccellenza– sostituisce, quindi, una verbosità completamente ripudiata, incapace di raccontare e di empatizzare con lo spettatore: simbolo della primitività che è celata nella psiche di ogni individuo, la danza –in perfetta simbiosi con la musica e il montaggio– diventa ossessiva, frenetica e con un ritmo oltre i limiti dell’ossessività e muta nel prolungamento e nel potenziamento delle emozioni, pure e distillate, che emergono dalla narrazione, definita da un’intensità descrittiva raramente vista prima d’ora.

Gaspar Noé non si posiziona mai troppo vicino. Lontano dall’ossessività del voyeurismo che, da sempre, ha caratterizzato la filmografia del regista argentino, Climax trova la propria peculiarità in un’inabituale –eppure naturale– compostezza osservatrice: tra lo lente della macchina da presa e i personaggi c’è sempre una distanza ben consapevole.

Climax: non un film, ma un’esperienza viscerale

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Con Climax, Gaspar Noé si sofferma a dipingere una propria e personale discesa negli inferi della psiche umana, una fuga da un terrore indefinito ed impossibile da evitare, un’odissea reinterpretata secondo il gusto personale che da sempre contraddistingue la filmografia del regista argentino. 

Non un film, ma un’esperienza viscerale che presenta la potenza del cinema, medium dalla potenzialità assoluta, dove la componente linguistica si fonde indistinguibilmente in quella visiva. Immerso in una dimensione caotica e imprevedibile, disordinata e informe, partorita da una vertigine di intensità, di caos e di terrore, il lungometraggio si mostra allo spettatore come una sperimentazione cinematografica non verbale che trova la sua potenza narrativa nell’appello all’inconscio di ogni individuo, proiettandone i bisogni e le paure, i desideri e i timori.

Regia - 5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 4.5
Emozione - 4.5

4.4