Boys State: recensione del documentario di Amanda McBaine e di Jesse Moss
La recensione di Boys State di Amanda McBaine e di Jesse Moss. Il documentario è disponibile sulla piattaforma SVOD Apple +.
1.000 adolescenti, uno stato, la politica. Cosa sognano i più giovani? Cosa farebbero se fossero al timone di una nazione? Questo è il centro di Boys State – è entrato nel catalogo di Amazon Prime Video -, il documentario di Amanda McBaine e di Jesse Moss che si concentra su una sorta di convention annuale negli Stati Uniti per i ragazzi di 16, 17 anni, un progetto nato nel 1937, organizzato dalla Legione americana, stato per stato. Qui ci troviamo in Texas, nel 2018, e lo spettatore viene catapultato in una singola settimana in cui i partecipanti vivono come se fossero adulti che fanno politica, inseriti in partiti opposti – come federalisti e nazionalisti -: decidono e si candidano alle elezioni. Un appassionato di politica di San Antonio, Ben possiede una sorta di Ken con le fattezze di Ronald Reagan e annuncia il suo programma spiegando alla sua famiglia che è un male per l’America concentrarsi su “razza o genere o disabilità”, Steven Garza si definisce un progressista, uno studente dolce, buono, dalla faccia aperta, ammira Bernie Sanders (e Napoleon) e arriva al Texas Boys State con una maglietta di Beto O’Rourke. Sono opposti e partecipano entrambi al progetto: Ben viene coinvolto dai federalisti, dove si assicura la carica di presidente del partito, Steven è inserito nei nazionalisti e al suo fianco ci sono Robert MacDougall e René Otero.
Boys State: Amanda McBaine e di Jesse Moss raccontano il gioco della politica
Il documentario segue questi quattro ragazzi, la loro corsa politica, l’occhio dei due registi si concentra su questa settimana di permanenza mentre “gareggiano” per finte cariche, conducendo dibattiti turbolenti, arrivando infine alle elezioni. Parlano di sicurezza pubblica, di armi e di aborto, di impeachment e di immigrazione, parlano di politica e di conseguenza di vita, di regole sociali, di futuro. Non si comprende bene se ciò a cui si sta assistendo sia un interessante studio sull’idealismo di questi giovani oppure di una violenza sanguinaria alla maniera del Signore delle mosche con, come protagonisti, dei demoni selvaggi in magliette bianche che guerrigliano fino allo stremo delle forze. Non è chiaro se sia più affascinante o tragico, se sia un reality o la realtà ma a poco a poco veniamo portati dentro a questo turbine e non senza paura per le idee di questi giovani uomini che rappresentano il futuro – e che seguono il pensiero conservatore, per usare un eufemismo, alla Trump. Basti pensare che nel 2017, il Texas Boys State ha votato per la secessione dall’unione, provocando una profonda riflessione nazionale, ed è proprio per questo motivo che l’anno successivo, i registi hanno scelto di trascorrere del tempo con loro nei giorni in cui, per “gioco” ma con una verve reale, stavano creando l’America, da zero, a loro immagine e somiglianza.
Boys State: un documentario emozionante e commovente
Boys State è emozionante e commovente anche per la sua crudezza emotiva, il suo innocente patriottismo e la capacità di ferirsi e meravigliarsi di ciò che accade intorno; si comprende fin da subito che quello a cui loro stanno partecipando è importante, non si tratta di una cosa da cosplayer in salsa patriottica perché i ruoli non sono i personaggi dei fumetti o dei videogiochi ma quelli della politica. Quei ragazzi che all’inizio sono vestiti tutti uguali e parlano quasi con una voce sola, ad un certo punto vogliono “uccidere”, a parole, con i propri programmi e la propria vis oratoria, il rivale e vincere; ciò che emerge è un’America ancora piena di incoerenze, di luci e ombre, quella che professa la libertà ma poi invita a usare le armi, chiudere le frontiere, dividere il mondo in giusti e sbagliati, in ricchi e poveri. Un’America machista – esiste anche il corrispettivo femminile del Boys State ma dai registi non viene presto in considerazione -, sessista – parlano di aborto senza inserire nel discorso la donna -, virile a tutti i costi – la questione LGBT è messa tra parentesi – e che tenta di cancellare, anche inglobando a volte, il diverso.
I giovani ci credono profondamente, anche ingenuamente a tratti, ed è inevitabile che vengano messi di fronte a due strade, il trionfo o la disfatta. I partecipanti imparano fin da subito che la politica è cinica, bisogna pungere per non essere punti, e quindi a poco a poco i giovani acquisiscono le tecniche, le pratiche dei politici. Alcuni di questi ragazzi sono duri e cinici, altri invece devono ancora farsi le ossa.
Un inno alla democrazia
I realizzatori seguono i giovani politici mentre si muovono in questi giorni, nelle notti, mentre organizzano, creano i contenuti, pensano agli slogan, lavorano sui social. Il tono è sempre vivace, energico e si partecipa passo dopo passo al progetto e allo spettatore sembra di partecipare a questo processo, di fare parte del “Boys State”. Dopo l’esperienza fatta molti decideranno di diventare i governatori di domani, di seguire la loro passione politica ed è interessante vedere quanto la politica possa coinvolgere i ragazzi.
Boys State porta sullo schermo l’amore per la cosa pubblica, si dimostra inno alla democrazia, democrazia che è viva, vitale negli anime e nelle menti dei ragazzi che sognano un mondo conforme ai propri desideri e ideali.