Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse: recensione del film di James Gray

La recensione di Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse, il film di James Gray con Anne Hathaway ed Anthony Hopkins è una lezione amara.

In un periodo in cui spesso e volentieri i film diventano occasione, per i registi, di riflessioni autobiografiche sul passato, sulla propria formazione, sul ruolo stesso del cinema, James Gray torna in sala, dal 23 marzo 2023 distribuito da Universal Pictures, con Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse. Presentato in Concorso al Festival di Cannes 2022, l’ultimo film del regista di Little Odessa, Two Lovers e Ad Astra si colloca in seno a questa multiforme tendenza, raccontando un coming of age autobiografico. Quello dello stesso Grey, che rivive sullo schermo attraverso la figura del giovane protagonista.

Con la testa fra le nuvole

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America, primi anni Ottanta. Paul Graff (Michael Banks Repeta) è un ragazzino ebreo che vive a New York, nel Queens, insieme alla madre Esther (Anne Hathaway), al padre Irving (Jeremy Strong) e al fratello maggiore Ted (Ryan Sell). A differenza di Ted, frequenta una scuola pubblica, dove ha la nomea di non essere certo un alunno modello e, con la testa tra le nuvole, sogna da grande di fare l’artista. Un sogno troppo poco pragmatico nell’America che si prepara a diventare reaganiana e che nessuno in famiglia capisce, fatta eccezione per nonno Aaron (Anthony Hopkins), che ha con Paul un rapporto privilegiato e speciale. A scuola fa amicizia con Johnny (Jaylin Webb), un ragazzino nero che sogna di fare l’astronauta e che condivide con Paul un certo spirito ribelle e indipendente. In un momento di passaggio cruciale nella storia degli Stati Uniti d’America, Paul vive il suo personale tempo dell’apocalisse, scoprendo cosa significa diventare grandi.

In un’America in cui contano solo il successo, i risultati, il denaro – quella stessa America “terra dei sogni e delle opportunità” che, tuttavia, sono a portata di mano solo di pochi privilegiati – Paul è un pesce fuor d’acqua. Si sente ed è a tutti gli effetti incompreso, nel suo essere così poco pragmatico e sempre con la testa tra le nuvole. Irving, padre severo e autoritario interpretato da uno straordinario Jeremy Strong, vede in Paul una forma di riscatto personale, vorrebbe che suo figlio fosse migliore di lui. Non riesce a sintonizzarsi davvero sulle frequenze emotive di Paul e anche Esther, amorevole ma frenata nelle sue sfumature contraddittorie, fa fatica. Entrambi sono incastrati nei condizionamenti di una società che lascia indietro chi non rispecchia certi standard e aspettative.

Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse: una lezione amara per uno sguardo indietro che riflette sull’oggi

Armageddon Time fa emergere questi contrasti nella rappresentazione della quotidianità della famiglia. Una famiglia in cui Paul ha come unico alleato il nonno, che sa bene (da immigrato ebreo ucraino) cosa voglia dire lottare in un contesto ostile. Nonno Aaron, accogliente e protettivo, insegna a Paul che essere un vero uomo significa non sottrarsi dal dovere di prendere posizione contro ingiustizie e discriminazioni, all’ordine del giorno nell’America degli Ottanta ma anche nel panorama contemporaneo. Gray affida il riferimento alla contemporaneità al breve ritratto di una certa famiglia Trump, determinata a formare le giovani élite del domani. Pur con una presenza relativamente limitata sullo schermo, Anthony Hopkins – come sempre monumentale – dà vita a un personaggio indimenticabile, così come resta indelebile l’impatto del rapporto tenero e struggente tra nonno e nipote. Unico spiraglio di ottimismo in un film altrimenti piuttosto pessimista e amaro nel suo ritratto di una società che lascia indietro chi non ha i mezzi per farcela da solo. Lo sa bene Johnny, che sogna di diventare astronauta ma che di speranze ne ha poche in quell’America delle opportunità che non sono per lui. E lo scoprirà presto anche Paul, nella sua apocalisse personale, che lo porterà a dover scontrarsi con una lezione dura e amara.

Armageddon Time fa del senso della misura il veicolo ideale per la narrazione di una doppia apocalisse

Senza sensazionalismo, senza ricorrere alla ricerca del pathos a tutti i costi, ma con estremo realismo e naturalezza, Armageddon Time restituisce anche nelle scelte tecniche ed estetiche un profondo senso di malinconia. Gli ambienti sono immersi in una palette di colori autunnali, la messa in scena è rigorosa e asciutta, i toni sono per lo più sommessi. E, in sottofondo costante, i rumori di una città che non si ferma mai accompagnano costantemente l’azione. James Gray racconta la sua parabola di formazione, il suo coming of age e il suo tempo dell’apocalisse allargando l’orizzonte delle riflessioni su un quadro più ampio, in una prospettiva che arriva di riflesso fino all’oggi. Vi è un grande senso della misura nel racconto di Armageddon Time. Un senso della misura per certi versi rischioso, che potrebbe essere scambiato e ricevuto come reticenza, addirittura come un ostacolo all’impatto emotivo, ma che in realtà è il veicolo ideale per la narrazione di una doppia apocalisse, personale e collettiva, che rimane impressa e che genera riflessioni scomode e complesse in noi che assistiamo.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.8