3 Days in Quiberon: recensione del film dal TSFF35

Un anno prima della tragica morte, Romy Schneider rilascia un’intervista a un giornalista tedesco della rivista Stern, durante un soggiorno in un hotel termale bretone a Quiberon. Questo è il centro del film 3 Days in Quiberon di Emily Atef – realizzato dalla regista nel 2018 e che arriva in anteprima in Italia, nella kermesse triestina -, presente al Trieste Film Festival 35, nella sezione Wild Roses: Germania, dedicato alle registe del cinema tedesco di oggi. Atef si concentra sui tre giorni in cui Schneider (strepitosa Marie Bäumer, così somigliante all’attrice da far star male) si lancia in un gorgo di gioia e disperazione, in cui racconta sé, il suo dolore, le ferite e dal suo volto emerge chiaramente tutto ciò che ha dentro. Attorno a lei ruotano il fotografo Robert Lebeck (Charly Hübner), vecchio amico ed ex amante, Michael Jürgs (Robert Gwisdek), il giornalista e la sua amica Hilde (Birgit Minichmayr) che tenta di proteggerla e di farla sentire amata. 

3 Days in Quiberon: la fotografia di una donna spezzata ma ancora carismatica

Romy: “Non posso fare nulla nella vita ma tutto sullo schermo”

1981. Schneider vuole ripulirsi dall’alcol e raddirizzare la propria vita, non tanto per sé e per il suo lavoro quanto per il figlio quattordicenne, David – che muore poco dopo quell’intervista -, che vuole lasciarla sola e abbandonarla. La donna è lì per riprendere il controllo di se stessa, per questo ha abbandonato la casa e si è rinchiusa in quel luogo e lei, come fosse una città colpita dal fuoco nemico, viene messa a ferro e fuoco. La pellicola, in un meraviglioso ed elegantissimo bianco e nero, scelta obbligata e omaggio per le fotografie di Lebeck, che enfatizza bellezza e desolazione della diva, comincia quando Hilde, amica d’infanzia di Romy, la va a trovare perché vuole proteggerla da se stessa e, in seguito, anche dalla rivista Stern. Hilde teme per lei, consapevole che non sia proprio il momento più giusto in cui donarsi alla sanguisuga e crede che quella non sia un’intervista ma una vera e propria manipolazione.

Romy è fiaccata dal sonno inquieto, dalla dieta ferrea a cui è sottoposta, stremata dai tanti film consecutivi alla ricerca del ruolo perfetto, dell’interpretazione della vita per strapparsi di dosso quella Sissi che le è rimasta cucita su ogni centimetro della pelle. Jürgs e Lebeck chiedono e ottengono un’intervista ed un servizio. Arrivano alle terme di Quiberon, vogliono sapere tutto, entrare nella sua vita e cogliere ogni minimo dettaglio e la sua più profonda essenza grazie all’obiettivo fotografico. In quella stanza si costruisce un tipico dialogo tra intervistatore e intervistata, Michael è il classico giornalista cinico che ambisce a fare grandi cose e affila la lingua per aprire a metà la preda, tirare fuori ciò che nasconde, Schneider è l’ammaliante star del cinema che cerca di affogare i suoi demoni nel bicchiere ma dietro a questa immagine c’è molto di più. Lei è stata ed è motivo di scandalo, non ha paura di dimostrarlo dicendo ogni cosa senza freni, come dice, lei non è le donne e i personaggi che interpreta. 

Un’intervista a tratti spietata da cui emerge la figura di una donna piena di ombre ma anche intrisa di luce

Schneider ha un desiderio, togliersi di dosso (soprattutto per il pubblico tedesco) quel personaggio che le è stato cucito tanti anni prima, lei è Sissi, lei è quella ragazzina vivace e bellissima che diventerà principessa. Quel ruolo le sta stretto, è insofferente ad esso e molte scelta di vita sono state determinate proprio dal tentativo di cambiare strada. Paradossalmente emerge anche abbastanza chiaramente quanto la vita interiore dell’attrice sia più allineata a quella di Sissi di quanto lei non volesse ammettere: entrambe bellezze decorative, tormentate da un delicato e fragile mondo interiore.

Questo tema inevitabilmente entra nell’intervista di Jürgs che inizia un dialogo senza esclusione di colpi, entrando nel profondo, facendosi strada tra gli eventi della vita dell’attrice. Schneider non fa passi indietro, non viene piegata dalle parole, ci tiene a sottolineare e a spiegare che non è “scappata in Francia”, ma che “voleva vivere”. Di minuto in minuto la conversazione si fa sempre più onesta, al centro la relazione con i genitori attori, il rifiuto del fenomeno Sissi, le insicurezze di madre. Schneider rilascia un’intervista dettagliata e sconvolgente, in cui dà un resoconto onesto del difficile dialogo tra arte e vita personale, parla in maniera intima delle relazioni con le persone più importanti della sua vita.

Romy: “Io non sono Sissi, ma un’infelice donna di 42 anni”

L’attrice è bellissima ma anche tanto infragilita, sembra essere in gabbia, piena di sensi di colpa per aver trascurato, a causa del lavoro, il figlio, così il volto appare segnato dall’alcool, uno degli indizi della crisi, arma e antidoto utile per sopportare il dolore. La stella non ha più niente da perdere oggi, in quella stanza, di fronte ad un giornalista che farebbe di tutto per avere uno scoop. I metodi infatti da lui usati sono senza scrupoli, conficca la lama, cerca i nervi scoperti e come uno sciacallo affonda a piene mani in quel coacervo di ricordi, rimpianti e tormenti. Mentre il giornalista incalza estorcendo, l’attrice pare, dolorosamente e anche paradossalmente, liberarsi e purificarsi come se, nel momento in cui dice il rimosso, tutto faccia meno male. Nel caso di Romy Schneider però le ferite sono troppo profonde, lei è troppo svuotata e vulnerabile.

Lo spettatore entra nel mondo interiore di Schneider, incontra lei e il suo patrimonio doloroso, l’occhio di Atef è capace di cogliere gli umori volubili di Schneider, ribellione (pensiamo all'”evasione” in un bar per sciogliere i nodi e accarezzare lo strazio interiore), senso di colpa, voglia di brillare ancora e ancora, il rimorso per gli errori compiuti, poca felicità perché per l’attrice è effimera e inconsistente.

3 Days in Quiberon: conclusione e valutazione

3 Days in Quiberon non è un documentario, è il lavoro profondo e rispettoso su una donna che è vissuta veramente. Atef ha preso l’intervista, le foto, e poi le ha fatte sue. Non è solo la rappresentazione dell’attrice più famosa d’Europa, con tutte le sue fragilità ma anche qualcosa in più, le difficoltà di una donna di allineare pubblico e privato, di scendere a patti con l’immagine divistica. Lo spettatore è colpito da Schneider che, con la sua personalità magnetica, brilla e si mostra, in una costante e sfiancante autovalutazione, profondamente se stessa, tormentata dai fantasmi, reale, imperfetta, umana.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.8