We are who we Are: recensione della serie di Luca Guadagnino

Luca Guadagnino debutta sul piccolo schermo con We Are Who Are, un doppio coming of age anticonformista dal tessuto ricco e colorato, ambientato nell'America in miniatura di una base militare di Chioggia.

Pochi registi sono così in ascesa al momento come Luca Guadagnino, che a 49 anni e dopo tanta gavetta è riuscito ad affermarsi come una delle realtà più interessanti del panorama cinematografico, divenendo un polo attrattivo particolare soprattutto per il mondo statunitense. A maggior ragione dopo il successo di Chiamami col tuo nome, il cui sequel, Cercami, occupa tuttora il primo posto nella lista dei suoi nuovi progetti, che sono tanti, che sono interessanti e che sono imprevedibili, come lui.

Prima di tutto però c’è We are who we are, Sky – HBO e The Apartment – Wild Side, una miniserie con una idea seriale più estesa, perché Guadagnino ha, tra le altre cose, anche un’anima commercialmente moderna. Una modernità di cui è intrisa anche la sceneggiatura di questo coming of age anticonformista, scritta dal regista insieme a Paolo Giordano e Francesca Manieri. Perché anticonformista? Perché lo sono i personaggi, perché lo è il luogo in cui è ambientata e perché, di conseguenza, lo è il concept, sia in rapporto ai contenuti sia al lavoro tecnico se comparato ai prodotti televisivi, Guadagnino stesso ha raccontato di essersi approcciato al lavoro come se stesse girando un nuovo film.

We are who we are riesce a coniugare una visione molto legata alla realtà presente del mondo adolescenziale, con la poetica e i topoi tipici del regista siciliano e con parte della sua vicenda autobiografica, proponendo un prodotto pieno in tutti i sensi, intrigante e di una sensibilità diversa, che sà di tradizione e di nuovo allo stesso tempo.

La miniserie ha debuttato il 9 ottobre su Sky Atlantic e NowTV.

Come devo chiamarti?

we are who we are, cinematographe.it

Alla base militare di Chioggia è tempo della nomina del nuovo comandante. Un momento delicato, reso ancor di più tale perché il prescelto è Sarah Wilson (Chloë Sevigny), una donna con una moglie, Maggie (Alice Braga), e un figlio, Fraser (Jack Dylan Grazer).

Facciamo la loro conoscenza la mattina presto in aeroporto, imbattendoci in un 14enne con i capelli tinti di biondo, una discutibile peluria sotto il naso e i pantaloni leopardati che, dopo averlo visto farsi un cicchetto, non lasciamo più. Fraser ha sempre le cuffiette nelle orecchie, è un appassionato di poesie (come Elio), è in costante competizione con la madre e più che altro scalcia a destra e a manca, colpendo un po’ tutto quello che trova. Forse è superdotato. Seguendolo nel suo girovagare esploriamo la base, un’America in miniatura con tanto di college e squadra di football, dove si viene presto investiti da una percezione paradossale della realtà, dovuta allo scontro tra la superficiale calma  dell’omologazione della vita militare e il vibrante senso di diversità che ribolle nel sottosuolo civile. Uno scontro che si accentua ancor di più con il coinvolgimento delle nuove generazioni, affaccendate a destreggiarsi con il senso di colpa deviato dei propri genitori.

Così Fraser diventa un esploratore, o un osservatore, come lo siamo noi, e lui adora spiare, gli permette di scegliere tenendosi a distanza, al riparo dietro la sua musica. Il suo interesse viene catturato da una ragazza della sua stessa età di nome Caitlin (Jordan Kristine Seamón), che incontriamo mentre recita una poesia di Walt Whitman sul desiderio. Lei è la creatura più complessa di tutte, un alieno (Guadagnino ci scherza anche sopra) alla ricerca della propria identità, come Fraser, il suo contatto con la Terra. Il loro incontro avviene nel nome dello scoprire e quindi dello scoprirsi, accomunati da una sensibilità che trasforma presto il loro rapporto in un intimo ed esclusivo tenersi per mano, reso ancora più speciale perché partito da un “Come devo chiamarti?”.

We are who we are : right here right now

we are who we are, cinematographe.it

Fraser è un po’ Guadagnino, un outsider dall’anima profonda, alla ricerca di qualcosa che rimanga in una vita passata a smettere e a ricominciare, intrappolata in un tempo dallo scorrimento innaturale, come suggerito dai fermo immagine e i rallenty del montaggio, in cui non è prevista continuità ed in cui si è costretti a vivere dando importanza al qui ed ora. Una meteora nell’esistenza di Caitlin, anche lei figlia della vita militare, nel pieno della sua evoluzione ormonale e nel momento di massima confusione di quella sessuale. Età per esplorarsi, portatrice di una libertà spesso frenata dal bisogno di difendersi da ansie e paure. Un concetto che Guadagnino lega in We are who we are al tema transgender inteso come superamento della concezione binaria dell’identità sessuale. Mettendo tra l’altro le cose in chiaro fin da subito, quando Sarah riceve una lettera dal padre in cui viene chiamata Annabel, come la protagonista dell’omonimo romanzo di Kathleen Winter, la storia della ragazza che si sente uomo. Uno dei tanti indizi di cui Guadagnino riempie i suoi lavori, i nodi che rendono la sua tela coerente e armoniosa.

we are who we are, cinematographe.it

Una dimensione del tempo strettamente connessa alla natura del luogo, uno degli elementi più ricchi di significati di  We are who we are. Esso è qui metafora di quegli incontri tra mondi diversi con cui al regista piace giocare e soluzione ottimale per approfondire altri immaginari. Magari anche già affrontati, come il confronto tra Nuovo e Vecchio Mondo di Suspiria o il dolore delle vittime collaterali, impersonato dalla Emma Recchi di Tilda Swinton che in Io sono l’amore aveva perso il suo nome. Per non parlare del tema della politica, contestualizzato alle elezioni americane del 2016 e sviluppato in un braccio di ferro con l’anima umana, che la sfuma e la trasforma secondo le mille pieghe della sua natura. Così una donna che lotta per le diversità prende spunto da Trump per le sue doti comunicative e un nero può indossare il berretto di Make America Great Again, come faceva il Paul di Delroy Lindo in Da 5 Bloods di Spike Lee, senza accorgersi del bisogno del figlio Danny (Spence Moore II) di riscoprire le sue origini lontane dal mondo occidentale. Un luogo, infine, che presuppone anche un dentro e un fuori, aprendo la strada al lavoro di opposti che permette alla serie di rielaborare e mischiare le identità dei personaggi.

Soldier of love

Chloë Sevigny, cinematographe.it

È tutto molto denso in We are who we are. Ogni scena è satura di stimoli e interpretazioni e tutto è funzionale ad arricchire il tema del racconto. Seppur in una struttura da teen story classica, con il gruppo di amici, la grande storia d’amore e la metafora della fine dell’estate, il racconto ha un’anima complessa, che opera secondo scontri generazionali, ideali, culturali e sessuali.

Guadagnino mette tutto se stesso nella serie, giocando sapientemente con la sua visione del cinema (togliendosi anche qualche sassolino dalla scarpa), con i personaggi e con i temi della sua filmografia, inseguendo costantemente il tempo presente e divertendosi a raccontare le mille più una sfaccettature del mondo adolescenziale. Un vortice in cui ognuno cerca affannosamente di capire chi sia.

Straordinario notare la funzione diegetica che assume ogni aspetto del codice linguistico cinematografico. Come la componente visiva nel rapporto di Fraser con l’oggetto del suo amore, una montagna da scalare simile a quella che era Oliver per Elio; in quello con le sue madri in cui comanda la fisicità; o in quello con Caitlin, lavorato sui contrasti, anche di pelle. Ma ciò che ruba la scena è l’uso, anzi, gli usi della musica.

Da quella di Klaus Nomi, un icona transgender della musica tedesca, che copre l’inno di Mameli e costituisce uno dei nomi principali che accompagnano il racconto insieme a Blood Orange, cantante hip hop al centro degli scandali per la copertina di Cupid Deluxe (se volete approfondire). La sua It is what it is è il secondo sottotitolo di We are who we are. Ma ci sono anche i Rolling Stones, osannati già da Guadagnino in A Bigger Splash, e suonati qui da Jonathan (Tom Mercier), il soldato che voleva fare la rockstar. Un lavoro di sound design che si inserisce nella scena, sostituendo la recitazione, alterando i tempi narrativi, dando vita ad un crescendo che regala un accenno di musical per divenire infine rituale sacro, dove potersi lasciare finalmente andare al meraviglioso percorso per incontrare se stessi.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Sonoro - 3
Recitazione - 4
Emozione - 3.5

3.4