Kevin Can F**k Himself: recensione della serie Amazon con Annie Murphy
Una serie che sorprende e che, nonostante qualche errore e qualche fragilità, stimola la riflessione raccontando molto di oggi, di noi, del quotidiano.
Allison McRoberts è la tipica moglie da sitcom, remissiva, dolce, carina, lavora e poi quando torna a casa si occupa dei panni da lavare e da stirare, ma soprattutto segue il marito, Kevin (Eric Petersen), in ogni cosa perché lui è infantile, irresponsabile e pasticcione. Ma è davvero così, è davvero la realtà? Questo è il centro di Kevin Can F**k Himself, serie – nuova comedy di AMC – di 8 episodi – che cambia di minutaggio per sostenere il mix di comico e drammatico -, arrivata il 27 agosto 2021 su Amazon Prime Video. Lo spettatore si trova veramente in una situation comedy? Subito capiamo che no, non lo siamo. La creatrice Valerie Armstrong (Lodge 49) vuole stupire con una serie, prodotta da Rashida Jones e Will McCormack, che lavora con e su due generi diversi, appoggiandosi completamente sul meraviglioso e sfaccettato talento di Annie Murphy – premiata agli Emmy per Schitt’s Creek – da una parte un mondo da sit-com e dall’altra parte una dark comedy in cui Allison finalmente può dire, fare, pensare, dare sfogo ai suoi più bassi istinti e pensieri.
La vita secondo Allison tra sit-com e dark comedy
Allison: “Sembra che ciò che faccio non sia mai abbastanza”
Tutto è tipico, la coppia vive in una classica casetta da sitcom, circondata dai tipici vicini che si riuniscono, come sempre accade, nel soggiorno, anche la regia è classica, in multicamera e con le risate preregistrate a cui ci ha abituato questo genere. Sembra di vivere la vita di Cheryl di La vita secondo Jim o quella di Molly di Mike and Molly, costretta a rimettere a posto i danni dei mariti ma qui non c’è amore, c’è solo dipendenza tossica. Kevin Can F**k Himself è una commedia americana con tutti i crismi, ma è anche l’incubo di Allison che si sente in prigione in questa maledetta casa, con questo stupido marito, con questi vicini che non tollera. Soprattutto non tollera sé stessa che in dieci anni di matrimonio ha vissuto una vita banale, in balia di un marito che non l’aiuta, che non la sostiene, che è quel che è – che è poco. Mentre il marito Kevin, quello del titolo, si bea di quel suo piccolo mondo, crogiolandosi nei suoi errori quotidiani, lei soffre in silenzio ma ad un certo punto tutto esplode, vorrebbe ucciderlo con i vetri di un bicchiere caduto e andato in frantumi, vorrebbe dirgli cosa pensa davvero di lui, vorrebbe uscire dalla porta e non tornare mai più.
Nei suoi pensieri, nell’altra parte della sua vita quel bicchiere glielo conficca nella carne, gli risponde come tanto desidererebbe. Kevin Can F**k Himself alza il Velo di Maya e mostra cosa nasconde la tipica famiglia americana, mette in evidenza le falsità della piccola e media provincia americana, in questo caso, quella di Worcester nel Massachusetts, dove Allison vive. Tutto il male è rappresentato da Kevin, mediocre, indolente, falso, maschilista nella maniera più becera e pericolosa possibile perché sottile, endemica, sistemica, al coniuge è concesso tutto perché per un uomo sono semplicemente simpatiche debolezze di cui si può ridere. Kevin è un pingue e inetto patriarca, che trangugia cibo, che si diverte con gli amici ma nel lato sit-com ha le caratteristiche di un Homer Simpson, nel lato dark è un insopportabile sciocco verso cui non si può avere compassione. Lui è il centro di quel piccolo mondo di cui è uno Zeus con zero fascino e pochissimo potere invece pensa di esserne Dio incontrastato. Con il ciuffo che probabilmente porta da quando è ragazzo, è infantile, e quindi anche egocentrico (festeggia l’anniversario di matrimonio da solo), come se gli anni per lui non fossero passati, ogni cosa è sua e mente spudoratamente ad Allison che finge di non accorgersene. Emerge grazie alla vicina Patty (Mary Hollis Inboden) una realtà inaccettabile, i risparmi di una vita, messi da parte – su un conto di cui non ha la firma – per comprare una casa più grande lontana da lì, sono stati usati da Kevin per pagare i suoi vizi, e lo sanno tutti tranne lei, sua moglie che ha lavorato nel negozio di alcolici per portare avanti la famiglia, il loro sogno.
Kevin Can F**k Himself: una serie che critica la società dimentica dei propri sogni
Allison: “Vorrei ricominciare, andare da un’altra parte facendo tutto nel modo giusto. Potrei essere finalmente completa”
Allison non ce la fa più, è stufa, stanca, in crisi perché il marito non vuole condividere nulla con lei, si sente di aver sbagliato tutto e di essere incompleta. Si rende conto di ogni cosa, non può più accettare e prende coscienza di molte cose. La mogliettina, quella perfetta degli Anni ’50, non trova più spazio, e la donna nascosta dietro ad un cliché emerge, ribelle ed anche aggressiva, andando alla ricerca della droga, arrivando a meditare l’omicidio di Kevin. Armstrong decostruisce la sitcom che ha raggiunto l’apice con Kevin Can Wait della CBS in cui la moglie del protagonista Kevin James era così poco importante da essere “usata” come elemento comico e viene uccisa; insomma con questa serie la situazione si ribalta, a morire qui dovrebbe/potrebbe essere l’uomo. Kevin Can F**k Himself si fa critica spietata di una società che perdona quelli come Kevin (perché Kevin è Kevin), che ha distrutto uno dei suoi capisaldi: il sogno americano; chi vuole cambiare è un idiota, parafrasando Allison.
Lo scollamento tra le due realtà che viene esemplificato dai due generi è l’elemento più interessante e affascinante della serie ma è anche quello più particolare a cui ci si deve abituare inizialmente: si cambia repentinamente atmosfera, da quella dei siparietti di Kevin – che si trova benissimo in questo mondo colorato, schiocco, maschilista e superficiale – a quella scura, reale, cinica e pessimista in cui vive Allison. Quando si entra nella mente di Allison il tono si fa più nefasto, noir, come se la donna fosse una sorta di Walter White (Breaking Bad) declinato al femminile, forse un po’ troppo insistita e esagerata (la donna cerca la droga per sballarsi perché sopportare la realtà è insopportabile e ingestibile). Tra desideri di uccidere il marito, una spalla criminale (Patty) che aiuta e sostiene, spacciatori e sicari (lo sbandato concittadino Nick) da cui scappare e da cercare si entra nell’oscurità dell’animo umano, nelle ombre delle famiglie, nel lato tragico di Allison. C’è qualcosa però che proprio intorno a questa struttura, nel corso della stagione, stride.
Il cambiamento è difficile e il matrimonio è infelice
Patty: “Cambiare fa schifo ed è meglio lasciare tutto come è”
Allison soffre, si dispera, cerca di cambiare la sua vita ma non è facile perché è come se il suo ruolo ormai sia segnato: deve essere buona, disponibile, non può lasciarsi andare, deve accettare qualsiasi presa in giro (Kevin, il migliore amico Neil, il suocero Pete la prendono in giro dicendole che “è un neurone basico”, che è noiosa, che è “piattume umano, pattume”). Lei non vuole essere “carta da parati”, un arredo nella casa di un uomo che “è un manipolatore e un pezzo di merda”, non deve più sentirsi sbagliata (e questo si amplifica nell’episodio in ci va a fare una visita ginecologica) e inizia a vivere proprio quando capisce che lei va bene così come è, che non deve cambiare per andare bene agli altri. Anche il migliore degli uomini, Sam Park (Raymond Lee), il suo ex fidanzato che rappresenta per lei ancora la speranza che qualcosa di bello possa accadere, le dice cosa sbaglia, chi deve essere e cosa deve essere e la donna non vuole più stare a questo gioco.
Anche Sam è sposato proprio come Allison e anche lui come lei è intrappolato in un matrimonio triste ed sbagliato; la serie è anche la storia del matrimonio infelice e di come per “salvarsi” sia necessario parlare chiaro, essere sinceri e liberarsi da un giogo di cui non si ha bisogno.
Ci si potrebbe chiedere che cosa spinga Allison a rimanere imbrigliata in quella vita, perché non prenda la porta e se ne vada, appare chiaro, rimettersi in gioco non è facile, fa paura. L’abitudine fa pensare che quella vita sia normale, è la propria, fa credere che la vita senza l’altro sia perduta.
Kevin Can F**k Himself: Allison e Patty, vicine, amiche, complici
Non appena Kevin esce dalla stanza, la protagonista è da sola, con i propri pensieri, tutto cambia, dalla gradazione di colore – che separa i due mondi di Allison – al suo stesso atteggiamento: lei si fa sempre più oscura, diventa imprevedibile e contemporaneamente scava nell’unione con Kevin, facendo un percorso per migliorare sé stessa. Ogni cosa va riconsiderata, ogni gesto altrui, ogni parola è percepita in maniera differente; la mascolinità tossica non verrà più accettata, compresa. A seguire Allison in questo difficile viaggio c’è Patty, sorella di Neil che fino ad ora aveva appoggiato gli scherzi, le battute di Kevin e degli altri e ora non ci sta più. Lei stessa ha a che fare con un sistema che da sempre cerca di dirle chi e cosa essere, con uomini che vogliono dirle cosa fare, e la maturazione, la crescita sono in atto anche per lei. Il loro rapporto è fondamentale nella storia, parlarsi, raccontarsi – prima nessuno ascoltava Allison -, spinge a capirsi meglio, a guardarsi con occhi “altri”; saranno proprio delle frasi di Patty a diventare frasi motivazionali per la protagonista.
Kevin Can F**k Himself: un serie sorprendente
Kevin Can F**k Himself è una serie che sorprende e che, nonostante qualche errore e qualche fragilità, stimola la riflessione raccontando molto di oggi, di noi, del quotidiano. Sicuramente è anomala e per questo interessante, mostra l’evoluzione del genere comedy, sperimentando non senza qualche inciampo. Si ride anche con un ghigno grottesco perché c’è bisogno di ironia e speranza, però c’è anche, dietro a quel mostruoso accenno fatto con le labbra, molta brutalità, molto dolore e molta disperazione. Allison ci mostra luci e ombre della vita, quanto spesso si normalizzi ciò che non si dovrebbe; certo qui tutto viene esasperato, alle volte qualche scelta sembra eccessiva ma è questo il bello di una serie come questa