Il delitto di Ponticelli – L’ombra del dubbio: recensione della docu-serie Sky

Quarant’anni fa, a Ponticelli, periferia orientale di Napoli, due bambine di 7 e 10 anni venivano seviziate ed uccise. Tra giovani manovali, incensurati, furono sommariamente accusati dell’omicidio. Condannati all’ergastolo, hanno trascorso in cella 27 anni delle loro vite. E oggi chiedono, in un documentario Sky, che venga riconosciuto l’errore giudiziario.

Il delitto di Ponticelli è un episodio di cronaca nera – e giudiziaria – tristemente caduto nel dimenticatoio. Il 2 luglio del 1983 due bambine di 7 e 10 anni che vivono nel Rione Incis di Ponticelli, quartiere operaio della periferia orientale di Napoli, si allontano da casa nel tardo pomeriggio, poco prima dell’ora di cena. Una terza amica, Silvana Sasso, di 9 anni, ha appuntamento con loro, ma non si presenta, probabilmente perché la nonna, venuta a sapere del programma della nipote, l’ha chiusa in casa. Un’altra bambina, Antonella Mastrillo, vicina di banco di Nunzia, vede le due amiche, all’altezza della pizzeria La Siesta, salire su una Fiat 500 blu a fanale rotto su cui è affisso un cartello con la scritta ‘vendesi’. Il giorno dopo, la puzza di bruciato proveniente da un canale nascosto da un sottopasso indica a chi stava cercando le bambine il luogo in cui si trovano i loro cadaveri. Seviziate, uccise e carbonizzate, le piccole vengono ritrovate unite in un abbraccio, tenute strette da una corda. Una delle due, la più grande, reca i segni di uno stupro. 

Il delitto di Ponticelli: l’efferato assassinio a sfondo sessuale di due bambine, ritrovate carbonizzate in un canale

Due mesi dopo, per il duplice delitto, vengono incarcerati, a scontare una condanna di ergastolo, tre ragazzi, di età compresa tra i 18 e i 21 anni: Ciro Imperante, Luigi Schiavo, Giuseppe La Rocca. Sono tre manovali incensurati, appartenenti a famiglie della zona su cui nessuno ha nulla da chiacchierare. Gli indizi – non vi è né vi sarà mai alcuna prova – che portano a loro sono scarsi, quasi nulli, e si riducono essenzialmente a una testimonianza: quella resa da Carmine Mastrillo, fratello maggiore di Antonella, l’amica di Nunzia che per prima aveva riferito agli inquirenti di aver visto le due bambine salire sulla Fiat 500 in cui avrebbero incontrato il loro destino di morte. Mastrillo accusa, poi ritratta, poi accusa di nuovo; il fratello dei uno dei tre indiziati conferma le parole di Mastrillo, ma sulla sua testimonianza s’addensa il sospetto di torture e minacce di morte subìte in caserma. Sul caso, grava, infatti, un’atmosfera di concitazione, una volontà di precipitare la risoluzione: la mamma di Barbara, il cui marito sta morendo, si è rivolta, accorata, al Presidente Pertini per sollecitare un suo tempestivo intervento, ma è soprattutto il camorrista Raffaele Cutolo, che ha preso il controllo della zona, a fare pressione affinché si sollevi da ogni responsabilità l’uomo che è sospettato di essere Gino, anche detto Tarzan tutte lentiggini

È Silvana Sasso, la bambina che avrebbe dovuto accompagnare Barbara e Nunzia all’appuntamento, a fare nome e nomignolo. Nelle sue deposizioni, parla di un uomo rossiccio di capelli, con il volto ricoperto di efelidi, dalla corporatura robusta: aveva detto alle bambine di chiamarsi Gino, ma loro lo avevano ribattezzato con un nomignolo cartoon, e in particolare una delle tre, Nunzia, si era lasciata per qualche motivo affascinare. La descrizione restituita dalla piccola corrisponde perfettamente alla fisionomia di Corrado Enrico, semianalfabeta, detto anche Maciste, un uomo che vive di espedienti, soprattutto facendo l’ambulante. Su di lui convergono indizi gravi e concordanti: sono in tanti a riferire di attenzioni inopportune ricevute dall’uomo, dipendente dall’alcol e già noto alla comunità per le sue condotte deviate, e lui stesso confessa di aver in passato importunato una bambina, strappandole un bacio e masturbandosi davanti a lei. Tra le altre cose, racconta di aver saputo della morte delle due amichette da una foto di giornale, foto che mai è stata scattata. La moglie, inoltre, non conferma il suo alibi. E senz’altro non può essere un caso che l’auto da lui posseduta è proprio una Fiat 500 con un fanale rotto.

Il delitto di Ponticelli – l’ombra del dubbio: valutazione e conclusione

Il delitto di Ponticelli – L’ombra del dubbio: recensione cinematographe.it
La docu-serie Sky in quattro episodi è disponibile on demand su Now.

Nonostante l’identikit reso dalla piccola sopravvissuta e nonostante l’unico teste adulto si fosse rivelato inaffidabile, come anticipato, sono Ciro Imperante, Luigi Schiavo, Giuseppe La Rocca a essere, nel giro di due mesi, a conclusione di indagini e processo a dir poco sommari, comunque dichiarati colpevoli e condannati all’ergastolo: liberati dopo ventisette anni per buona condotta, intervengono, con nitore espressivo e assenza di livore, in una docu-serie Sky dai ritmi serrati e di grande spessore non solo giornalistico, ma anche civile, per chiedere che venga fatta luce sulla verità e riconosciuto l’errore giudiziario che, da innocenti, li ha trasformati in colpevoli. Il delitto di Ponticelli – L’ombra del dubbio, disponibile anche on demand su NOW, ricostruisce, così, grazie ai contributi non solo dei tre ex ragazzi giudicati colpevoli, ma anche di giornalisti che all’epoca seguirono il caso e di altre figure allora coinvolte, le interferenze camorristiche che avrebbero inquinato le indagini. Lo fa con una certa sapienza nell’organizzazione dello story telling, valorizzando, anche tramite l’uso del sonoro, la componente thrilling, tuttavia senza abdicare mai all’accuratezza storiografica, alla precisione e al rigore nella restituzione del dato cronachistico. Stupisce che, di questo caso di complicità tra giustizia – si fa per dire – e criminalità organizzata, si sappia molto poco. La docu-serie Sky, prodotta anche da Groenlandia, ha allora il merito soprattutto di compensare una negligenza, una colpevole disinformazione

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4

Tags: Sky