Ghosts of Beirut: recensione della serie tv su Paramount+

Ghosts of Beirut vuole essere lucido e ben fatto, il problema sta nell'assenza di emozioni e in una storia che non ha colpi di scena.

SUV neri percorrono una strada deserta. Iraq meridionale. 20 gennaio 2007. L’agente della CIA Lena Asayran (Dina Shihabi) riceve una chiamata: un attacco terroristico li ha colpiti. Sa che questo è opera di Imad Mughniyeh (Amir Khoury prima, Hisham Suliman poi), uomo che il governo americano sta cercando da 25 anni, terrorista considerato più feroce e malvagio dello stesso Osama Bin Laden. Questo racconta Ghosts of Beirut, miniserie spionistico-politica dal 27 luglio 2023 su Paramount+ con i suoi quattro episodi, creata da Avi Issacharoff e Lior Raz (Fauda), e diretta da Greg Barker, narra la ricerca decennale del terrorista libanese Mughniyeh, riuscito a rimanere nascosto per moltissimo tempo.

Ghosts of Beirut: una serie troppo artificiosa per colpire

Negli anni ’80, il misterioso leader di Hezbollah fonda l’Organizzazione della Jihad islamica del Libano, e lui stesso sembra essere uno dei “fantasmi” ritenuti responsabili di una serie di attentati e rapimenti antiamericani in tutta la regione. La storia di Mughniyeh parte da quando ha 14 anni, sempre incline al radicalismo, il suo nome è legato a quello di Hezbollah, il gruppo terroristico che ha compiuto gesti di una violenza inenarrabile in tutto il mondo. La serie inizia quando l’uomo ha compiuto 21 anni ed è stato contattato da una fazione della Guardia rivoluzionaria islamica iraniana per organizzare campi terroristici.

Ghosts od Beirut si muove nello spazio e nel tempo, lo spettatore si trova nel 1982 in una Beirut, costantemente sotto attacco da parte degli israeliani. Vuole essere come Zero Dark Thirty, porta al centro della narrazione Mughniyeh, abbraccia più decenni e prospettive ma proprio mentre tenta di sciogliere i nodi rimane imbrigliata dentro, intende destreggiarsi tra tutti questi punti di vista, non rende interessanti tali storie. La sensazione è quella di essere di fronte ad un verboso ed artificioso magma di spionaggio, violenza, bombardamenti e sangue che non va oltre, si sta un passo indietro. Chi guarda non è particolarmente preso dalle esistenze degli agenti, dalle missioni, strano perché si percepisce chiaramente fatica e frustrazione mentre quel fantasma per anni nell’ombra, senza lasciare tracce – per questo è chiamato The Ghost – mette in atto i suoi piani e loro restano con un pugno di mosche in mano.

I quattro episodi raccontano la guerra civile libanese ma ad un certo punto Israele, Iran, Siria, OLP e Stati Uniti sono tutti coinvolti in qualche modo, cercando di mantenere la pace o combattendo da una parte o dall’altra per portare avanti le loro posizioni. Ghosts Of Beirut racconta di Imad Mughniyeh perché responsabile degli attentati che hanno distrutto l’ambasciata americana e la caserma dei marine a Beirut, uccidendo centinaia di soldati, è responsabile del rapimento e dell’uccisione di William Buckley.

La serie mira ad impressionare, vuole (di)mostrare quanto sia pericolosa la vita di un agente della CIA sul campo eppure lo fa in maniera fredda, strano perché più ci si addentra nella storia, più alta diventa la posta in gioco, non ci si dovrebbe sentire al sicuro e invece lo sviluppo degli episodi smorza la tensione, livella la paura proprio per quella melma che rende tutto uguale.

Si tratta però di materia pulsante, di una storia vera nonostante ovviamente il lavoro di scrittura, gli episodi iniziano con lo stesso disclaimer: “Questo è una costruzione degli eventi immaginaria basata su approfondite ricerche” e infatti la storia viene inframmezzata da interviste – che hanno lo scopo di convalidare gli eventi – ad ex agenti della CIA, giornalisti e capi di spionaggio del Mossad che sottolineano il significato del regno del terrore di Mughniyeh.

Il racconto di un machiavellico terrorista

Imad AKA Radwan, Aka The Ghost, è descritto come una “mente machiavellica”, motivato, appassionato, un leader, obiettivo del Mossad, ossessione della CIA, è il villain e la serie segue lui ed anche gli sforzi della CIA e del Mossad per abbatterlo. Si tratta di una caccia all’uomo rigorosa e decennale, messa in scena con un’attenzione registica e di fotografia (nei toni del grigio e del verde acido) puntuali, senza fronzoli, anche nei dialoghi asciutti e diretti, eppure non basta. Lo spettatore conosce il ventenne Mughniyeh (Amir Khoury) ma anche l’uomo di mezza età sorvegliato (Hisham Suliman), dall’altra parte conosce anche la dozzina di funzionari della CIA e del Mossad.

Gran parte del primo episodio è dedicato ad Imad che cerca di convincere il suo primo attentatore a compiere l’atto. “Premi il pulsante e vai in paradiso” dice lui per spingere l’amico ad agire, calcando la mano sui suoi fantasmi. 
Ghosts of Beirut resta impantanato nella forma, nella struttura, nella regia, a non svilupparsi è il vero e profondo dramma che sarebbe dovuto essere parte integrante dell’opera. Non c’è tempo per trattare il conflitto interiore di Lena o il carattere dell’agente del Mossad Teddy (Iddo Goldberg). Tutto sembra una macchina ben oliata che però non mostra la strada che compie. Ci sono tanti personaggi perché c’è stato un enorme numero di persone occupate a trovarlo nel corso degli anni, ci sono tre serie di protagonisti in quattro episodi.

Ghosts of Beirut: valutazione e conclusione

Ghosts Of Beirut cerca di ridurre questo conflitto tentacolare, è impossibile però, lo spettatore invece si sente intrappolato in quei tentacoli, si sente confuso. I fantasmi del titolo non riescono ad interessare il pubblico, nonostante le pagine che riguardano questi fatti siano così profondamente parte del presente e dell’attuale situazione geopolitica mondiale. Si parla di troppe cose, la narrazione continua a spostarsi in luoghi e linee temporali, la scelta creativa è stata infatti quella di ricorrere a ricerche dettagliatissime per fornire un resoconto accademico e autentico dell’accaduto.

I creatori suddividono la serie in quattro parti che fanno riferimento a due epoche distinte: l’ascesa al potere di Mughniyeh e l’aumento della violenza negli anni ’80 e ’90 e poi il periodo precedente al suo assassinio da parte della CIA e del Mossad nel 2008. Proprio anche a causa di questa struttura, ai personaggi non sembra essere concesso il giusto spazio per respirare, provare emozioni, in modo da esplorare retroscena, famiglie, amici e tutto ciò che ha portato a questa caccia all’uomo.

La serie trascina i suoi episodi per più di un’ora, trascorrendo lunghi periodi di tempo in storie secondarie, incluso il tempo dedicato alla vita privata di Mughniyeh e a quando incontra una donna di cui si innamorerà prima di morire, scelta fatta per umanizzare l’uomo che ha ucciso centinaia e centinaia di persone innocenti. Gli attori offrono performance solide ma i personaggi sono carta velina, non hanno tempo di mostrarsi. Ad un certo punto, un agente dice, “siamo venuti tutti qui per ragioni diverse”, ragioni che non vengono mai esposte o almeno non fino in fondo.

Ghosts of Beirut vuole essere lucido e ben fatto, il problema sta nell’assenza di emozioni e in una storia che non ha colpi di scena.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.6