Echo: recensione della serie TV Marvel su Disney+

Echo è la riposta ai problemi dello storytelling Marvel?

Non è trascurabile che Echo – la serie TV spin-off di Hawkeye (2021) prodotta dai Marvel Studios e su Disney+ dal 10 gennaio 2024 – arrivi con tutti gli episodi disponibili contemporaneamente. La modalità distributiva tradisce fiducia nelle possibilità dell’immaginario, attenzione alla complessità delle sfide che attendono i personaggi e rispetto per lo spessore della cultura e del mondo scelti come riferimento e ambientazione. In effetti Echo, pur nel rispetto delle convenzioni dell’universo Marvel, si concede un’apprezzabile eresia.

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Un’eresia, una soltanto, ma di quelle che contano: l’ambiguità. Con Alaqua Cox, Devery Jacobs, Henry Chaske, Graham Greene, Tantoo Cardinal e Vincent D’Onofrio, la storia è quella di villain carichi d’umanità, di padri e figlie – di fatto, non nel sangue – che si fanno la guerra. Di cugine così vicine da sembrare sorelle e al tempo stesso distanti anni luce. La serie combina la modernità, brutale ma accattivante, di New York e del suo sottobosco criminale, con l’eredità culturale dei Nativi Americani. Nello specifico la Nazione Choctaw; è da lì che viene la protagonista, Maya Lopez.

Echo: le due case, le due famiglie, le due vite di Maya Lopez

Echo cinematographe.it recensione

La vita di Maya Lopez (Alaqua Cox) è una partita a ping pong tra l’Oklahoma – nel cuore della Nazione Choctaw – e New York. New York è il posto in cui cresce dopo essersene andata in conseguenza della tragica morte della madre. Maya ha due case, due famiglie e due vite. La vita più articolata è quella newyorchese, sotto l’ala protettrice dello “zio” Wilson Fisk in arte Kingpin (Vincent D’Onofrio), che ne fa un elemento di punta della sua armata criminale. Maya è una villain – l’abbiamo conosciuta così in Hawkeye – ma c’è molto da scoprire a proposito della sua identità oscillante. Perché è questo che fa Maya, oscilla senza tregua tra il passato e il presente, tra il richiamo del sangue in Oklahoma e la famiglia adottiva a New York. Ci pensa Kingpin a dare una scossa alla sua vita, costringendola a traslocare.

Se New York non è più un posto sicuro, non resta che tornare in Oklahoma. Non è solo un’altra tappa nel suo viaggio: per sopravvivere, per tirarsi fuori dai guai, materialmente e spiritualmente, Maya deve riconnettersi con le sue radici. Complicato, perché l’apprendistato riservatole da Kingpin ha esasperato i tratti più estremi del suo carattere rendendola brutale, impaziente e a tratti insensibile. La sfida del team creativo – qui il resoconto della conferenza stampa – consiste nell’approfondire la complessità di Maya senza addolcirne il carattere o predisporre un’ipocrita redenzione, trovando comunque il modo di regalarle umanità e tenerezza. C’era una volta un vecchio (bellissimo) film e la sua battuta più famosa: la grande tragedia del mondo è che ognuno ha le sue ragioni. Echo è il racconto delle ragioni di Maya.

In Oklahoma i rapporti con la famiglia sono, eufemismo, complicati. Con la parte maschile le cose vanno abbastanza bene. C’è un buon dialogo con lo zio Henry (Chaske Spencer), sorta di intermediario tra la vita criminale e privata di Maya, il lavoro e la famiglia. E intatto è il sentimento che la lega a Skully (Graham Greene), il suo quasi-nonno. Come se non fossero passati anni, rivedersi è riannodare le fila di un discorso che dura da una vita. Diversa è la situazione con le donne. Bonnie (Devery Jacobs) è sua cugina ma sono cresciute in simbiosi al punto da sembrare sorelle; il silenzio e la paura di un nuovo incontro pesano. Bonnie è Maya se non fosse mai andata a New York. Poi c’è la nonna materna, Chula (Tantoo Cardinal), che dopo la morte della figlia ha indurito il cuore. Echo sottopone la protagonista a una triplice pressione: la famiglia biologica, i richiami della vita criminale a New York e una soprendente eredità, antichissima, che proviene dal retaggio Choctaw.

Una storia Marvel più realistica e attenta all’ambiguità psicologica dei suoi personaggi

Echo cinematographe.it recensione

Il punto di partenza di Echo è una salutare ambiguità: le cose che sappiamo e quelle che non sappiamo su Maya Lopez. Lo spin-off, idealmente, affonda gli artigli su un personaggio/una situazione/un carattere poco definiti ma attraenti per lavorarci sopra chiarendo, approfondendo, precisando. Il rischio è che l’eccesso di informazioni, non adeguatamente motivato, risulti in una sterile ridondanza, frustrando le aspettative dello spettatore. La ricompensa, quando il lavoro è fatto bene, è rappresentata dalle tante inedite possibilità, narrative e spettacolari, che la storia principale faticava a rendere visibili e che ora emergono in tutto il loro potenziale. Ciò detto, come lo spin-off Echo contribuisce a definire lo stato di salute dello storytelling Marvel?

In tre modi diversi. Prima di tutto, merito all’asciutta ma vibrante regia di Sydney Freeland e Catriona McKenzie, ancorando l’estetica Marvel a un realismo grezzo che fa da contraltare alla spettacolarità confusa delle ultime uscite cinematografiche. La crudezza di Echo indica la via per il futuro prossimo: storie con i piedi per terra e personaggi più sfumati. Poi, secondo fattore, accogliendo la naturale ambiguità di Maya. Cattiva, certo, ma che la serie cerca comunque di definire…senza definirla. Accettandone la complessità del carattere e delle motivazioni, non forzando cambiamenti improbabili e senza annacquarne la psicologia. Infine, terzo elemento, lavorando con puntiglio sull’eredità culturale della Nazione Choctaw per garantirne la massima efficacia drammatica. Non limitandosi, cioè, a un progressismo da salotto, ma cercando di fare buon uso delle tradizioni a portata di mano.

Una rappresentazione inclusiva degna di questo nome non può limitarsi al mero valore produttivo, ma deve offrire un contributo valido alla definizione di storia e personaggi. Echo è una serie modellata da un team creativo ricco di voci e punti di vista che fino a non molto tempo fa sarebbe stato accettabile definire marginali. L’attenzione al mondo Choctaw ha una certa profondità; tra le altre cose, permette il racconto di un’America pre-europea che lega con l’estetica fantasy dell’universo Marvel. Universo che, come sappiamo, ha il suo set di convenzioni ineludibili: dialettica bene vs. male, centralità della famiglia, azione e umorismo. La chiave di Echo è il duetto tra la malvagità venata di malinconia di Vincent D’Onofrio (e del suo Kingpin) e il carattere forte e ambiguo di Alaqua Cox/Maya. Sono padre e figlia, zio e nipote, nemici giurati. Vale a dire, tutto ciò che la Marvel è stata fino a questo momento e insieme il tentativo di complicare le cose, lavorando di fino sulle psicologie e irrobustendo la storia con più realismo.

Echo: valutazione e conclusione

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Echo: la riposta ai problemi dello storytelling Marvel? Esagerato, ma è vero che la storia, guidata dalla sensibilità cruda ma non scevra di umanità della brava Alaqua Cox, impegnata in un testa a testa serrato con un altrettanto bravo Vincent D’Onofrio, offre alcune indicazioni interessanti. Echo deve bilanciare il realismo, la complessità dei personaggi, il ritratto del mondo Choctaw, con le stringenti necessità commerciali dei Marvel Studios. Non può spingersi troppo oltre in termini di profondità, ma offre ugualmente un valido intrattenimento. Nella crudezza delle atmosfere e nell’intensità delle scene d’azione, prende il meglio della ricetta Marvel pre-2019 (famiglia, umorismo, spettacolarità e buoni contro cattivi) aggiornandola dove serve. Con una certa efficacia.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.1