Castle Rock – Stagione 2: recensione della serie TV Hulu

La seconda stagione di Castle Rock porta Annie Wilkes tra gli orrori delle Notti di Salem. La serie è è disponibile dal 13 febbraio 2020 su Starzplay.

Siamo nuovamente nella mente di Stephen King, siamo nuovamente a Castle Rock. Alla sua seconda stagione per la serie antologica che intreccia inquietudini e personaggi dell’universo orrorifico dello scrittore americano, l’operazione originale prodotta da Hulu ha tutto il retrogusto sanguinolento delle tradizioni letterarie kingiane, agendo come contenitore unico nei limitati tempi di una stagione seriale, ma riempiendolo fino a vederne fuoriuscire l’ignobile melma che si nasconde nelle leggende e nei racconti del terrore.

Angeli demoniaci, allucinazioni devianti, storie di famiglie disgregate e, soprattutto, la collocazione periferica delle cittadine del Maine, emblema costante della bibliografia del creatore di mostri, che non si lascia sfuggire neanche in questa occasione di riesumare le atmosfere predestinate al declino e alle catastrofi simili ai luoghi anonimi e famigliari della Derry del suo It. A comporre il maggiore portato della seconda stagione di Castle Rock, che ripropone lo stilema già avviato con la prima e costruendo attorno a un solo racconto il principale centro della storia, è il personaggio iconico dell’infermiera Annie Wilkes, ritrovatasi incastrata nelle sorti di un paese che nasconde sotto la propria terra laceranti segreti, con fondatori satinasti pronti quattrocento anni dopo a reclamare i propri diritti.

Castle Rock – Tra Stephen King, tradizioni, paranoie e satanisti

castle rock, Cinematographe.it

Mescolando, dunque, le vicende che precedono l’ossessione psicotica per la protagonista Misery dell’intellettuale Paul Sheldon, la Annie interpretata ventinove anni dopo per la serialità da Lizzie Caplan si ritrova affiancata a una figlia-prigioniera e costretta a fronteggiare un sortilegio che ha atteso anni prima di potersi compiere, scombussolando l’animo già precario della donna, decisa prontamente a continuare la sua fuga per l’America e scappare così da un evento del suo devastante passato.

Tematicamente improntato sulle disfunzionalità dei rapporti famigliari, che ritornano come asse portate per muovere le pedine della narrazione di Castle Rock, sono i protagonisti di Lizzie Caplan e Tim Robbins a farsi da assi portati intorno a cui vanno a gravitare le relazioni pericolanti dei personaggi. Cuori pulsanti di assembramenti affettivi che vedono il graduale sgretolarsi tanto sotto il punto di vista umano, quanto modificati dagli accadimenti metafisici che la cittadina va sospingendo, cercando di diventare argomento predominante della serie, ma rimanendo solamente come condizione del genere d’appartenenza del prodotto, continuando a lasciare totalmente spazio alle relazioni tra coloro destinati al risorgere dalle tenebre di Castle Rock.

È poi nella paranoia dell’infermiera e madre Annie che la serie, ideata da Sam Shaw e Dustin Thomason, persegue i suoi tratti horror, la deformazione proveniente dall’ossessione della donna che funge da distorsione anche per la percezione degli spettatori, costretti alle stesse fobie che spaventano e opprimono la protagonista, usandole da filtri per la costruzione della messinscena e delle idee distorte della regia. Sensazione intrigante che la serie, però, non riesce a mantenere costante, la quale si affievolisce non appena l’attenzione non rimane più catalizzata sulla figura inquieta e alienante di Annie, lasciando un’impressione di superficialità sulle altre storie che compongono il solo, collegato mosaico.

Castle Rock – Lizzie Caplan e Annie Wilkes catalizzano l’attenzionecastle rock, Cinematographe.it

Una curiosità morbosa che, purtroppo, Castle Rock perde nella diramazione delle altre vie del racconto, diventando sempre più confusa nel suo alternarsi di passato e presente, subendo una brusca frenata proprio sul concludersi delle ultime puntate. Un arresto che si diffonde per le strade della città protagonista, che subiscono sia le azioni che i personaggi, come arrivati alla questione decisiva da cui scappare o lasciarsi assorbire, scegliendo piuttosto di stabilire un’immobile calma che non permette alla serie un epilogo né entusiasmante, né tantomeno convincente.

Ciò che di continuo però si riconferma episodio dopo episodio è l’immedesimazione dell’attrice Lizzie Caplan nei gesti, gli scatti, soprattutto nella rigida e ballonzolate camminata del suo personaggi, a cui l’interprete affida un’apatia pronta a ruggire al primo segnale di pericolo, spostandosi da una imperturbabile quiete – sempre comunque estremamente tirata – a una rabbia incontrollabile, il cui rossore e la deformazione facciale ne esaltano l’imprevedibile squilibrio. Con una fotografia eccessivamente soffusa e dilatata che si contrappone all’oscurità verdognola e poco attraente dei sotterranei di Castle Rock, la serie oscilla come il suo scontrarsi tra diversi tempi senza realmente affondare gli artigli nel macabro assoluto, funzionando molto bene quando sono l’horror e la mania a parlare, ma subendo un forte attrito per il resto dei suoi momenti.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.7