Bangla: la recensione della serie Rai, sequel dell’omonimo film, diretta da Phaim Bhuiyan

Più che la sua cultura d’origine, in conflitto con quella d’approdo, Phaim patisce la paura di non essere abbastanza bravo (nel sesso, soprattutto). Come un qualsiasi Milllennial.

Usciva esattamente tre anni fa, nel maggio pre-pandemico del 2019, il film Bangla, premiata opera prima di Phaim Bhuiyan, enfant prodige bengalese di seconda generazione, residente nel quartiere periferico e multiculturale di Tor Pignattara
Insieme regista, sceneggiatore, attore e protagonista della vicenda, di cui lo stesso ‘TorPigna’ natio è personaggio-motore, il giovane Bhuiyan, classe 1995, si autorappresentava nelle sue diverse identità in conflitto: il musulmano che non intende tradire i precetti del suo credo per cedere alla passione anche carnale per il primo amore, una figlia della Roma bene radical chic; il ragazzo, ad emancipazione lenta, ancora attaccato alle gonne della madre e ugualmente devoto al padre; lo svagato Millennial amante dell’arte e della musica, indeciso sulla strada professionale da intraprendere, frutto acerbo di una semente interetnica accestita sul terreno scivoloso di una generazione inibita e complicata. 

Phaim: uno Zerocalcare stritolato dai dubbi e dalla paura di non essere abbastanza bravo

Sesso o non sesso: l’autore e attore protagonista Phaim Bhuiyan insieme alla co-protagonista Carlotta Antonelli, nel ruolo di Asia. Entrambi sono nati a Roma nel 1995.

Bangla-La serie, disponibile dal 13 aprile su RaiPlay, riprende in otto episodi da trenta minuti circa ciascuno, il discorso interrotto dal film e segue l’evoluzione del rapporto tra Phaim e la sua ragazza Asia, quest’ultima d’indole ben più risoluta del primo. I due si dividono intorno all’opportunità di vivere a pieno la sessualità: Phaim vorrebbe arrivare vergine al matrimonio, come la sua religione imporrebbe, mentre Asia spinge per la desacralizzazione del sesso e la costruzione di un’intimità di coppia quale cemento dell’unione affettiva. 
In verità, il dissidio vissuto da Phaim sembra riconoscere la sua causa ultima non tanto nell’attaccamento alla cultura dei suoi genitori – di cui la religione islamica è senz’altro una delle più ingombranti espressioni – quanto in un sentimento interiorizzato di diminuzione e disistima, nell’insicurezza patologica che lo costringe ad indietreggiare di fronte ai suoi desideri, a dubitare ossessivamente sul da farsi. 

L’impasse vissuta dal protagonista, in fondo, dipende dalla paura, più che di tradire Allah, di non essere abbastanza bravo. Paradossalmente, Phaim venera più il sesso che il suo Dio e, da questo piedistallo, non vuole toglierlo: misurarcisi lo spingerebbe a fare i conti con una vulnerabilità di cui non vuole sapere nulla, che preferisce rigettare per continuare a identificarsi con il mito della propria impreparazione a fronte della preparazione degli altri. In questo, Phaim appare più come un Millennial medio che come il figlio di due culture drammaticamente in collisione. 

L’incontro con Sulayma: l’eroe si specchia nell’alterità ‘simile’ 

Incontro tra famiglie: Phaim proviene da una famiglia bengalese tradizionalista; Asia è figlia di genitori romani separati, con trascorsi hippie.

È il personaggio di Sulayma, il più vibrante della serie, a propiziare allora lo sblocco: lontana cugina del protagonista, sembra una ligia musulmana, ma in lei alberga una crudezza che la rende affascinante e che, nel nascondere, rivela la sua fragilità, la ferita che la anima e la fa muovere, al contrario di Phaim, verso l’esplorazione delle sue complessità. Specchiarsi in Sulayma, l’altra sé erotizzata, in una sua simile però altera (e aliena) diviene per Phaim l’occasione di accelerare la resa alle sue paure, alle sue ferite cristallizzate in (comode) identità. Ecco allora che la narrazione s’interrompe ancora, lasciando presagire un ulteriore capitolo, la continuazione di un romanzo di formazione che procede a singulti, costellato com’è di ingorghi nevrotici.

Bangla-La serie conferma la qualità del film, sebbene all’interno di una poetica autoriale ancora acerba e sfocata nonché debitrice di stereotipie forse non più così funzionali ad aggiornare il topos dell’amore avversato (l’antinomia tra la famiglia tradizionalista di lui e la famiglia progressista, allargata e ‘arcobaleno’, di lei, polarizzazione che non sfugge a un eccesso di rigidità formale).

Punto di forza è, invece, l’uso della colonna sonora quale punteggiatura dei diversi momenti dell’educazione erotico-sentimentale dell’antieroe protagonista: la scelta ricade perlopiù sul cantautorato italiano dal gesto di scrittura elegante e, nel contempo, melodicamente struggente. La stretta al cuore è garantita. 

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 5

3.4

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