Baby Reindeer: recensione della mini-serie Netflix 

Mini-serie di folgorante intensità, con un protagonista che mette a nudo le sue fragilità prendendosi il rischio di risultare respingente: Baby Reeinder non è tanto la storia degli eccessi di una stalker, quanto piuttosto la dissezione della complicità della sua vittima.

Baby Reindeer è apparsa in sordina all’interno del catalogo Netflix ed è cresciuta grazie alle recensioni lusinghiere dei critici e al passaparola degli spettatori, fino a raggiungere in breve tempo la vetta dei più visti.
Il titolo della mini-serie ha una traduzione abbastanza chiara: Piccola renna”, ma per scoprire da cosa derivi bisogna attendere fino ai minuti finali, in cui Baby Reindeer si rivela l’esempio lampante di come il doping pubblicitario non serva se la qualità della scrittura è di per sé già più che buona o, come forse in questo caso, addirittura eccellente

Per prima cosa, facciamo ordine. Richard Gadd (Wormit, 1989) è sia autore dello spettacolo teatrale da cui origina l’adattamento Netflix Baby Reindeer sia l’interprete protagonista dello show. La vicenda rappresentata è autobiografica: nella serie, Richard prende il nome di Donny, ma, al di là di inevitabili contraffazioni e depistaggi a scopi tutelativi o drammaturgici, quel che viene mostrato è quel che davvero ha vissuto per alcuni anni della sua vita, quando, approdato da un piccolo borgo della Scozia a Londra in cerca di fortuna come commediografo, si guadagnava da vivere lavorando in un pub. È proprio nel pub in cui, alle soglie dei trent’anni, cercava di racimolare lo stipendio necessario alla sopravvivenza in città, che incontra colei che in Baby Reindeer è Martha e la cui vera identità è oggi oggetto della curiosità morbosa di molti tra quanti hanno apprezzato, ma forse non troppo compreso, la serie. Una donna che, nei sette episodi di breve durata – si guardano in un paio di giorni, ma è sconsigliato il binge watching – che scandiscono il racconto visivo, è interpretata dalla straordinaria Jessica Gunning

La discesa agli Inferi di Donny, protagonista della scena e comparsa nella vita

baby reindeer cinematographe.it

Sui quaranta, sovrappeso, decisa a trascorrere qualche ora nel locale senza consumare nulla, Martha appare bizzarra, ma innocua: sospinto da un moto di compassione, Donny – useremo d’ora in poi il nome del personaggio e abbandoneremo quello dell’autore-attore-protagonista della vicenda reale – decide di offrirle una tazza di tè. Ciò basta perché lei, sedicente avvocata di grido, s’avvinghi al suo ‘cavaliere’, lo idealizzi in senso romantico e inizi ad alimentare l’illusione delirante di essere da lui contraccambiata. In breve tempo, quelle che sono soltanto attenzioni che in Donny suscitano divertimento – la donna ha una risata argentina e contagiosa, parla con proprietà di molti argomenti, oscillando in modo ambivalente tra la ripetizione ossessiva di alcuni temi e spiazzanti intuizioni in grado di squarciare ogni velo di ipocrisia e di cogliere nel suo interlocutore nodi irrisolti o riposte fragilità – si trasformano in forme sempre diverse, più o meno inventive, più o meno invadenti, di persecuzione. Martha sgomita per avere un posto nella vita di Donny ed è pronta a tutto per ipotecare il suo diritto all’esclusività del rapporto: se la prende prima virtualmente e poi fisicamente con l’ex di Donny; cerca di sabotare la sua nuova relazione con una ragazza trans; lo innalza e lo smonta a seconda delle convenienze, gonfiando, sgonfiando e rigonfiando il fragile narcisismo di lui; arriva a fabbricare un’accusa di pedofilia per colpire suo padre. 

Quel che, di questa serie, su episodi protratti di stalking da parte di una donna verso un uomo è interessante non è, però, tanto, come molti hanno sottolineato, il rovesciamento dei rapporti di forza tra i generi – Martha è una donna psichicamente disturbata e le azioni che compie sono conseguenza della sua struttura personologica psicopatica – quanto l’implicazione soggettiva di Donny-Richard nello stalking subìto: se è vero che Martha è la stalker, e pertanto l’aguzzina, altrettanto vero è che ha potuto travalicare certi limiti anche perché la sua vittima glielo ha consentito, e anzi si è servito di lei per trarne gratificazioni di varia natura. Trovatosi nella condizione ‘oggettiva’ di preda, ha potuto legittimare la sua ‘soggettiva’ pulsione alla fuga: la sua stalker gli ha fornito un alibi. Donny è bravo a tenere la scena: la costruzione dei suoi spettacoli, fondati sull’anticlimax e su una comicità programmaticamente smorzata, non piace a tutti, ma, con alterna fortuna, funziona; eppure, nell’altra scena, quella della vita, lui è soltanto una comparsa. Martha non solo gli offre a buon mercato quel riconoscimento che Donny cerca nel mondo – tra gli aspetti più interessanti della mini-serie c’è l’ammissione del bisogno d’ammirazione – e lo rassicura della sua avvenenza e delle sue qualità umane e artistiche, ma gli fornisce anche un’occasione per deresponsabilizzarsi ulteriormente, per continuare a scappare ancora dalla resa di conti con sé stesso fino a quando, nel momento in cui la situazione si fa insostenibile, non è più possibile farlo. 

Baby Reindeer: valutazione e conclusione

Baby Reindeer; cinematographe.it

La mia vita è cominciata a trent’anni e, per farla partire, è stato sufficiente essere onesto con me stesso”: la metamorfosi – non definitiva, sempre soggetta a regressione, come il finale sembra suggerire – di Donny avviene nel momento in cui smette di cercare alibi e si rende conto che, in fondo, il male che Martha gli fa è una fonte di guadagno narcisistico ed è un male non solo ‘accaduto’, non solo subìto, ma anche compartecipato. Sbrogliamo subito il campo dagli equivoci: nessuno, tantomeno Richard Gadd, assolve la donna, ma il valore artistico di questo prodotto che, a partire da un’esperienza autobiografica, intende riflettere sulla stessa, elaborarla, sottrarla a un piano squisitamente personale per permetterle di trasfigurarsi universalmente, risiede soprattutto nel punto di vista che adotta, punto di vista che guadagna forza e verità proprio perché ha rinunciato alla consolazione (auto)vittimistica.

Baby Reindeer viviseziona insicurezze, nevrosi, appetiti, ambizioni, confusioni e bisogni sgradevoli del suo protagonista: ce lo mostra in una discesa agli Inferi forse persino peggiore di quella scaturita dal fatale incontro con Martha – negli episodi centrali, Donny viene “ferito”, per dirlo con le parole di quest’ultima, da un uomo: non riveleremo altro – e ci conquista perché, in questa catabasi degradante, non ci viene mai da dire “Poverino!”. Donny non si vuole bene, non ha autostima, non riesce a stabilire limiti tra sé e gli altri, autosabota la parte più autentica e creativa di sé stesso: lo avvertiamo, ma comunque non ci fa pena. Il finale, di somma intelligenza, ci invita a riflettere sul fatto che, se a tutti può capitare di finire ammaliati dai giochi di prestigio di uno psicopatico, impigliati nella sua rete controllante, questo non significa che ciò equivalga a ricevere una pugnalata per caso. Spesso qualche parte, nel nostro male, l’abbiamo anche noi. La disponibilità a scavare quella parte determina la differenza tra l’artista radialmente tale, quello che ha messo in conto di poter perdere tutto, e l’artista d’occasione.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.8

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