Alta fedeltà: recensione della serie TV Hulu dal romanzo di Nick Hornby

Il romanzo più amato di Nick Hornby, Alta fedeltà, diventa una serie tv di Hulu e ci riporta al Championship Vinyl. Non vedevamo l'ora.

Un libro, un film, un musical e ora anche una serie tv. Le potenziali evoluzioni del romanzo scritto da Nick Hornby nel 1995 sembrano non esaurirsi mai e il piccolo cult dello scrittore britannico sulla vita di Robert (Fleming nel libro, Gordon nel film) e sui suoi amori, musicali e non, è così tornato ancora una volta a far parlare di sé, in una versione che pur distaccandosi per molti aspetti dalla pubblicazione – basti pensare alla scelta di una protagonista femminile, che prende il posto del Rob che tanto nel libro quanto nella resa cinematografica di Stephen Frears del 2000 ci aveva guidato nella trama di Alta fedeltà – mantiene intatto lo spirito del romanzo più amato di Hornby, trasportandoci in un mondo dove il supporto per eccellenza della musica è il vinile, dove ogni aspetto della vita può finire in una top 5, dove i cuori si infrangono a ogni angolo di strada e dove le dichiarazioni d’amore passano per le compilation, accuratamente assemblate secondo insindacabili e delicatissimi criteri.

Alta fedeltà: l’adattamento di Veronica West e Sarah Kucserka è sia un bel modo di omaggiare il romanzo di Nick Hornby sia una felice occasione per guardarlo sotto una nuova luce

A furia di parlare di feticismi lo stesso Alta fedeltà ha finito per diventare, e vale sia per il libro sia per il film, oggetto di feticismo e per raccogliere intorno a sé l’adorazione di chi della musica ha fatto una ragione di vita tanto da finire per chiedersi se siano i nostri ascolti a dare forma alla nostra vita o se sia la nostra vita a portarci verso certi ascolti – nel film Rob si domanda, interrogando lo spettatore: “Ascoltavo la pop music perché ero un infelice o ero infelice perché ascoltavo la pop music?”. Per questa ragione la versione serie tv uscita su Hulu a febbraio, non a caso il giorno di San Valentino, e disponibile anche per il mercato italiano dal 10 settembre 2020, si era guadagnata aspettative altissime, almeno per quanto riguarda quella nicchia di fedelissimi del Championship Vinyl, il negozio di dischi dove lavorano i protagonisti di Alta fedeltà.

Aspettative che si nutrivano anche della curiosità di vedere come se la sarebbe cavata Zoë Kravitz (Mad Max, Big Little Lies), la figlia d’arte nata dall’unione tra Lenny Kravitz e Lisa Bonet, nei panni della protagonista, afroamericana e bisessuale, della serie. E per quanto eguagliare, o addirittura superare, gli originali si sa che è impresa ardua l’adattamento di Veronica West e Sarah Kucserka è sia un bel modo di omaggiare il romanzo di Nick Hornby sia una felice occasione per guardarlo sotto una nuova luce e perdersi in digressioni che in una serie di dieci episodi riescono a trovare tutto lo spazio necessario.

Da Londra, dove Hornby ambienta il suo romanzo, a Chicago, set del film, fino a New York, la città scelta per la serie, che prende vita nello specifico a Crown Heights, Brooklyn. Qui la dimensione di quartiere è forse ancora più forte che negli altri set e le frizzanti vie di Brooklyn ricordano la vita di strada dei film di Spike Lee, dove i mattoncini del quartiere all’estremità occidentale di Long Island rientrano a pieno titolo tra i protagonisti delle pellicole ambientate tra i suoi colori. Qui c’è il Championship Vinyl, del quale come il suo ideale predecessore Rob è proprietaria. L’affascinante trentenne dalle braccia tatuate lo gestisce insieme ai suoi migliori amici: il suo ex fidanzato Simon (David H. Holmes) e l’amica Cherise (Da’Vine Joy Randolph), che prendono il posto, in parte anche per indole e fattezze, di Dick e Barry del film.

Il richiamo al film è forte soprattutto in Cherise, personaggio azzeccatissimo che ricalca Barry i cui panni nel film sono vestiti da Jack Black: con il ritmo nel sangue, mitomane, sovrappeso, integralista del buon gusto musicale, dura ma in fondo dolcissima, Cherise è una delle sorprese più radiose di Alta Fedeltà. Nel microcosmo che ruota intorno a Rob, poi, ci sono ovviamente le sue cinque più memorabili rotture, gli ex fidanzati che in continuità con il libro e con il film – in quei casi erano ex fidanzate, ma anche nella serie per la verità una donna c’è – hanno significato di più, e più l’hanno fatta soffrire, per lei. Su tutti, Mac, il grande amore di Robin, con il quale la protagonista ha rotto da circa un anno e che è appena tornato a New York con la sua nuova fidanzata. Oltre agli amori memorabili, poi, ci sono quelli meno indelebili, frequentazioni più o meno concludenti che attraversano la vita di Rob, come Clyde o il cantautore scozzese Thomas Doherty, nei panni di se stesso, presente quindi anche nella colonna sonora della serie con le sue canzoni nel ruolo che nel film era affidato a Marie DeSalle, interpretata tra l’altro dalla madre di Zoë Kravitz, Lisa Bonet.

È un ritrovo tra amici il Championship Vinyl, un punto di riferimento per i musicofili newyorkesi, un posto felice e forse un po’ illusorio, dove aggrapparsi con le unghie e con i denti a un mondo in via d’estinzione

Al di là della musica mai banale che dai Fleetwood Mac a Frank Zappa, da David Bowie a Nick Drake, da Prince ai Blondie, dai Talking Heads a Marvin Gaye, fa da colonna sonora alla serie sono, come anche nel film, i discorsi sulla musica il vero vanto di Alta fedeltà, una vera e propria dichiarazione d’amore per il mistero che si consuma ogni volta che le note dello spartito danno vita a quelle che chiamiamo canzoni, musica e parole capaci di trascinare chi le incontra giù negli abissi più profondi o tra i raggi più luminosi che sia lecito immaginare. Ne sono ottimi esempi la puntata in cui Rob discute di Paul McCartney con un collezionista misogino, la scena in cui Simon illustra al suo fidanzato l’importanza della disco music per la comunità gay e le infinite top 5 stilate dal terzetto di amici, dedicate agli emarginati, a chi ha saputo reinventarsi, alla masturbazione e a numerosi altri temi. Quando poi la cornice all’interno della quale i dialoghi di Rob, Simon e Cherise vanno in scena è il Championship Vinyl sembra – nonostante la riscossa del vinile che, è notizia di questi giorni, per la prima volta in oltre trent’anni negli Stati Uniti ha surclassato le vendite dei CD – di tornare indietro nel tempo, in un mondo in cui possa sembrare veritiera la risposta che Rob dà a chi le chiede come stia andando il negozio: “Bene, molto bene”.

In realtà, lo store di Rob e compagni, a parte il sabato, giorno di grandi acquisti, è quasi sempre piuttosto vuoto. Sul giradischi c’è sempre qualche vinile e non mancano i momenti in cui la cabina di regia suggerisce la distanza sempre maggiore tra un luogo come il Championship Vinyl e la modernità, come quando un avventore del negozio cerca di riconoscere quale sia il brano in riproduzione con Shazam, l’app in grado di individuare titolo a autore delle canzoni, e non invece domandando alla persona in carne e ossa davanti a lui, Cherise, che non manca, da dietro il bancone, di rimproverare, amareggiata, il cliente. È un ritrovo tra amici il Championship Vinyl, un punto di riferimento per i musicofili newyorkesi, un posto felice e forse un po’ illusorio, dove aggrapparsi con le unghie e con i denti a un mondo in via d’estinzione, quello in cui i piccoli negozi di dischi sopravvivevano alle multinazionali e al digitale e dove frugare tra i vinili creava già di per sé una comunità. 

Per quanto le vendite del negozio sembrino, stando alle parole di Rob, andare per il meglio, una certa amarezza dunque arriva. La stessa in qualche modo presente anche nel film di vent’anni fa, in un’epoca in cui ancora negozi come il Championship Vinyl potevano restare in piedi. È il bello di Alta fedeltà, l’essere una commedia leggera che non omette riflessioni che leggere non sono. Sul senso della passione per la musica. Ma anche su quello delle relazioni, quelle che crollano e quelle che crescono. Con la pesante consapevolezza, che attraversa i pensieri scuri di Rob alla ricerca di risposte tra i suoi amori del passato, che condividere, che si tratti di gusti musicali o di una vita insieme, è molto più complesso di quel che può sembrare e, in barba all’idea che l’uomo sia un animale sociale, mette di continuo in discussione la nostra stessa idea di identità. Non è un dramma, ma una presa di coscienza capace di velare gli occhi color cioccolato di Zoë Kravitz e i nostri, di qualunque colore essi siano, di una calda tristezza.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.7

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