The Dressmaker: recensione da letto

LEI: The Dressmaker, film australiano dal disgraziato sottotitolo  “Il diavolo è tornato”
LUI: spettatore intento a salvare quanto possibile.

– Ti vedo perplesso…
– Mmm?
– Va tutto bene? Abbiamo finito dieci minuti fa e non hai detto una parola…
– Eh, lo so. Sto cercando di capirci qualcosa, The Dressmaker.
– Beh, ma la mia trama è piuttosto semplice. Tilly Dunnage ritorna al villaggio natio, da cui è stata cacciata venticinque anni prima a causa da un misterioso incidente, con l’obiettivo di scoprire la verità e magari vendicarsi.

Kate Winslet in The dressmaker

Kate Winslet interrompe il gioco e per poco non ci scappa la gangbang.

– Non è solo la tua trama, dolcezza. Sei tu, nella tua interezza. Vai da un estremo all’altro, non hai vie di mezzo: alterni momenti estremamente piacevoli e cadute di stile inenarrabili.

– Oh… Momenti molto piacevoli, dici?
– Ma sì. Ad esempio, non ti perdi in quisquilie: fai arrivare lo spettatore nel mezzo della storia senza tanti preamboli e dai subito dato l’idea della situazione.
– Questo è vero!
– Però poi il ritmo della narrazione aumenta a dismisura e ti perdi per strada dei pezzi importanti, o ti soffermi appena su scene e snodi narrativi che sarebbe stato bello approfondire.
– Tipo?
– Tipo la storia di Molly, che è interpretata da un’ottima Judy Davis ed pure uno dei personaggi più sfaccettati e affascinanti del film. Tipo la storia di Tilly: d’accordo, è interpretata da Kate Winslet, che riuscirebbe a creare un personaggio credibile da due righe, ma è pur sempre la protagonista e non ci viene detto quasi nulla di lei. Oppure, il fatto che tutte le donne del villaggio cominciano ad indossare gli abiti di Tilly: la cosa succede praticamente da una scena all’altra, eppure è uno dei punti chiave della trama, no?
– Oh, senti, sono tratta da un romanzo bello corposo, è stato necessario fare delle scelte… Ma torniamo ai miei momenti piacevoli, per favore.
Il tuo cast mi piace molto. Kate Winslet è una garanzia, non c’è bisogno di dirlo. Potrebbe tenere in piedi il film da sola, ma non ne ha bisogno. Judy Davis, come si diceva, costruisce un personaggio di grande effetto, che spazia dal comico al drammatico e dà origine ad alcuni dei tuoi momenti più godibili. Lo stesso vale per Hugo Weaving, che, nei panni del poliziotto con l’ossessione per i vestiti da donna, si dimostra una volta di più l’attore drammaticamente sottovalutato che è.

Hugo Weaving in The dressmaker

Hugo Weaving in drag ha sempre un suo perchè.

E mi è piaciuto anche il resto del tuo cast, The Dressmaker. Sono attori poco conosciuti (almeno dalle nostre parti) in ruoli di secondo piano, ma insieme danno vita alla perfetta comunità bigotta e schiava delle proprie miserie, fatta di uomini subdoli e donne meschine. Sei uno dei pochi casi, The Dressmaker, in cui i comprimari sono forse la parte migliore del film.
– Giusto, giusto!
Liam Hemsworth, invece, è perfettamente sostituibile con un qualsiasi attore belloccio con l’accento australiano.

Liam Hemsworth in The dressmaker

– Evvabbè, è giovane. Dagli tempo. Sapevi che sarà il protagonista del sequel di Independence Day?
– Sorvoliamo. Comunque, il tuo problema più grande si chiama Jocelyn Moorhouse, che ti ha diretto e sceneggiato.
– Ma insomma! Che problema c’è con Jocelyn?
– Dimmelo tu, The Dressmaker. Che problema c’è con la tua regista? Ha potuto lavorare con ottimi attori e con dell’ottimo materiale di base, ed è riuscita a fare un casino. La tua sceneggiatura funziona bene nelle singole scene, ma nell’insieme è completamente sbilanciata: è drammatica quando dovrebbe essere comica e viceversa, lascia fin troppi spazi vuoti e non valorizza il soggetto, che sarebbe anche buono. E dalla metà in poi, tesoro mio, scivola nel ridicolo: comincia ad alternare colpi di scena senza capo nè coda che rovinano il poco di buono c’era.
– Va bene, ho capito, basta!
– E nel reparto tecnico non andiamo meglio. Le scelte di regia non sembrano avere nessun interesse ad adattarsi al tono del racconto, con l’eccezione forse di alcune scene ben riuscite. E la pochezza della fotografia mette in evidenza la pochezza delle scenografie.
– Sei davvero senza cuore!
– Ma no, ascolta: con tutti i tuoi difetti, ti appoggi su una storia che è molto buona e si presta perfettamente ad essere raccontata tramite immagini. Si arriva al punto in cui ci si affezione alla storia e ai personaggi, davvero. Solo che poi ti sputtani completamente.
– Non cercare di salvarti in corner, adesso. Si vede che non sono abbastanza bella per te, ecco tutto…
– Mettiamola così: in Australia sei andata fortissimo, probabilmente sei il film di cui il loro cinema ha bisogno.
– Mmm… davvero?
– Certo. Succede la stessa cosa anche da noi. E adesso metti comoda, che ci spariamo una maratona di film di Baz Luhrmann, contenta?
– Oh! Anche Australia?
– No. Australia no.
– Ok.