28 giorni dopo, il regista rivela il vero significato del titolo
“28 giorni dopo”? Quel numero non è lì per caso (e non c'entra solo il virus)
A prima vista, 28 giorni dopo sembrava un titolo perfetto per un film su un’epidemia. Lineare, evocativo. Ma poi è arrivato 28 settimane dopo, ora 28 anni dopo, e quel numero è diventato quasi mitico. Cosa c’è davvero dietro? Finalmente, i creatori originali, Danny Boyle e Alex Garland, hanno svelato l’arcano — e no, non ha nulla a che fare con il virus.
“Una volta, quando si restituiva un prodotto, c’era una finestra di 28 giorni. Era lo standard per avere indietro i soldi”, ha spiegato Boyle a Cinemablend. “Oggi non è più così comune, ma era una cosa conosciuta, e ci è sembrato un riferimento interessante.” Quindi il titolo non nasce dal calendario della pandemia, ma… dalle politiche di reso dei primi anni 2000.

Garland ha confermato la cosa in un’intervista a Jake’s Takes. Ha ammesso che il numero 28 è denso di simbolismi (cicli lunari, mestruazioni, ecc.), ma l’intento originale era un altro: raccontare una crisi che esplode e si consolida in un lasso di tempo specifico, come una spedizione che parte e si compie. E in effetti, nel film, la storia parte esattamente 28 giorni dopo l’inizio dell’epidemia: Jim (Cillian Murphy) si risveglia in un ospedale deserto e scopre che il mondo è crollato. Tutto ciò che accade, accade in quell’arco temporale.
Quando 28 giorni dopo sembrava una commedia romantica
Curiosamente, il titolo rischiò di essere un boomerang. Lo studio era in panico: “Non usate quel titolo,” dissero a Boyle e Garland, “c’è già un film con Sandra Bullock che si chiama 28 giorni, ed è una commedia romantica. Il pubblico si confonderà.” Ma era troppo tardi. La macchina era in moto. “Avevamo già fatto tutto,” ha raccontato Boyle. “E Sandra è ancora in giro, quindi va bene così,” ha aggiunto con ironia.
Ora, Garland e Boyle sono pronti a rilanciare il franchise con una nuova trilogia ambientata 28 anni dopo i fatti del primo film. Stavolta, però, l’intento non è quello di raccontare l’ennesima pandemia zombie. Boyle e Garland vogliono esplorare la convivenza forzata tra sani e infetti. Un mondo isolato, separato, dove l’epidemia è diventata parte della normalità. “Non volevamo fare il classico sequel con il virus come arma,” ha detto Boyle. “Alex aveva scritto una sceneggiatura così, ma non ha funzionato. Dopo una proiezione speciale del primo film, al BFI, ci siamo resi conto che il pubblico era ancora coinvolto. Così Alex ha avuto un’intuizione: spostare la storia su un’isola. E da lì è ripartito tutto.”
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