The Bear è un fenomeno! Perché la serie food Disney+ piace così tanto?

Perché tutti parlano di The Bear? 5 motivi per cui la serie Disney+ è un piccolo miracolo.

SPOILER ALERT! The Bear è un piccolo miracolo. Senza il blasone Netflix, senza particolari sollecitazioni pubblicitarie, grazie soltanto al passaparola e all’apprezzamento dei critici, è riuscito a imporsi al pubblico mainstream. Ma che cos’ha di tanto speciale? Proviamo a capire perché è più di quel che sembra.

Quale Davide contro Golia, è a sorpresa Disney+ il distributore della serie più amata della stagione: a più di un mese dal debutto, The Bear, dramedy in otto episodi firmata da Christopher Stoner,è ancora discussa e perlopiù salutata come un vero e proprio incanto. Anzi, per stabilire, più coerentemente con il suo soggetto, un impianto metaforico culinario, come un’autentica delizia dell’audiovisivo seriale. Ma quali sono gli elementi drammaturgici più rilevanti della sua costruzione? Cerchiamo di individuarli e di analizzarli. 

1. La rappresentazione dei costi psichici della società della performance 

The Bear cinematographe.it
Cronaca di un successo (non) annunciato: ‘The Bear’ è una delle serie dell’anno e nessuno se lo aspettava.

Il protagonista Carmy, abbreviazione di Carmen, nome che non sospettavamo unisex, ha l’aria sgualcita di chi non riesce mai a farsi una dormita di otto ore filate. Tornato nella città natale, Chicago, a testa china e muso lungo dopo una tragedia famigliare, il suicidio del fratello cocainomane, prova a risollevare le sorti di una tavola calda che quest’ultimo gli ha lasciato in eredità, insieme a una brigata di (si fa per dire) collaboratori abituati a lavorare a briglia sciolta, senza metodo né direzione. Ex enfant prodige dell’alta cucina, vessato dal suo capo quando era sous chef in un ristorante stellato, Carmy riproduce con la sua ‘nuova’ family ciò che ha subito per anni, provando a sublimare l’aggressività di cui è stato oggetto nello sprone della pignoleria

The Bear – titolo che procede da un sogno, traduzione simbolica del magone che rappresenta per il protagonista l’imperativo della perfezione in un lavoro con cui è totalmente identificato e a cui chiede ogni possibile gratificazione – ci mostra non soltanto i ritmi impazziti della ristorazione, ma anche l’interiorizzazione della pulsione prestazionistica, del culto della performance tanto ritualizzato da non essere più avvertito come tale. Di fronte a un vuoto di sapere su di sé, la tentazione è quella di compensare attraverso la costruzione di un’identità rigida quanto precaria che, in luogo delle sperimentazioni di altre possibilità dell’esistenza, magari fallimentari ma in qualche modo vitali, erratiche, eccedenti la normativa omologante, si ripiega sull’utopia apollinea della grandezza, del pieno dominio di un campo creativo a cui consacrare in modo totalizzante la propria esistenza, paradossalmente annichilendola. 

Allontanare la vita facendo di un lavoro la propria vita – anziché della propria vita un lavoro – è quanto fa Carmy, ma, come lui, tanti di noi. Per questo The Bear ci porta sì in una realtà di settore, ma, nondimeno, funziona da specchio e, qualsiasi sia il mondo lavorativo da cui veniamo, possiamo trovarci qualcosa anche del nostro quotidiano agonismo, della nostra ansia di dimostrare di essere all’altezza di richieste superiori. Con costi psichici non sempre trascurabili. Lateralmente, The Bear ci pungola anche rispetto al ricorso disinvolto agli psicofarmaci di cui siamo autori o testimoni noi stessi, ogni giorno, alla ricerca di un soccorso che quei medicinali stessi sembrano, però, a rigore, più rimbalzare che corrispondere. 

2. Il senso d’inferiorità – detto altresì ambizione. Fragilità e controllo nel protagonista maschile

Jeremy Allen White è Carmen ‘Carmy’ Berzatto, ex chef stellato protagonista di ‘The Bear’.

In un nota di diario vergata in data 21 settembre 1938, Cesare Pavese aforisticamente scriveva: “[…] il senso d’inferiorità – detto altresì ambizione”. Potremmo applicare lo stesso principio a Carmy. Se è vero che, dei due fratelli uniti dalla passione per la cucina, è lui quello che ha fatto carriera, mentre l’altro, un tossico dalle compagnie discutibili, è rimasto legato all’impresa di famiglia, episodio dopo episodio, scopriamo che la verità, al di là del dato esteriore, è ben diversa. Carmen è, in fondo, nonostante o forse proprio per il successo ottenuto nella professione, rimasto il ragazzino senza amici, inibito e spaventato dalla vita che, di fronte all’intraprendenza e alla disinvoltura del fratello maggiore, impallidiva e indietreggiava, schiacciato da un confronto impari. 

La fuga da un destino percepito come segnato – la mediocrità toccata al resto della sua famiglia, composta da sognatori inconcludenti – si è di fatto configurata come una fuga da sé stesso. The Bear mette al centro della sua drammaturgia l’anatomia di un maschile fragile che cela, dietro l’ossessività di un sogno di ordine, pulizia e successo, la paura di una ripetizione: quella del caos primitivo, sperimentato dal protagonista all’interno della sua famiglia d’origine nella posizione passiva di chi subisce senza poter reagire. 

3. A volte, una pipa è solo una pipa. Ma il cibo non è mai solo cibo

The Bear Disney+ - Cinematographe.it
‘The Bear’ è disponibile alla visione su Disney +.

Insieme alla fragilità, un altro tratto della sua personalità è il bisogno di controllo. È vero, rimaneggiando Freud, che a volte una pipa è soltanto una pipa, ma in The Bear la cucina è non solo cornice e sostanza narrativa, ma anche dispensatore simbolico. Lo chef, come una madre, nutre, ma lo chef, più di una madre, vuole donare un cibo che sia anche metafora, che sia anche un di più che trascenda il mero bisogno di nutrimento. Non è un caso se Carmy, sfinito dalla dozzina di ore di lavoro quotidiano, quando torna a casa, s’ingozza di junk food, quello che mai servirebbe ai suoi clienti. La sua passione non è, in fondo, passione per il cibo o desiderio di alimentarsi o alimentare, ma una sfida manipolatoria: da uno stato grezzo, porta le materie prime a un grado di raffinazione progressivamente sempre maggiore. Si fa artefice di una trasformazione, che impone all’oggetto alimentare, inanimato ma comunque responsivo alle sue pratiche ‘impastatorie’. Sui processi chimici può attuare quel controllo che sulla sostanza caotica della vita mai ha avuto e teme di non poter avere mai. 

Carmy vuole inoltre uscire dalle grammatiche della sua famiglia, emancipando la pulsione orale dal cortocircuito divorante, nobilitandola attraverso la cultura. Tra le regole da lui introdotte nella cucina che era stata del fratello, anche quella di riferirsi gli uni agli altri con l’appellativo di chef. Se ‘la famiglia’ inizialmente accoglie quale ridicolo formalismo la sua richiesta, col tempo comprende che la forma non è mai solo forma e neanche sostanza, ma un’apertura al simbolico che salva dal precipizio nell’automatismo pulsionale, dall’alienazione nell’istinto o nell’inconscio, a seconda di come lo si vuole chiamare

Attraverso quella via di uscita si stabiliscono i confini che consentono di non soccombere e di riemergere, ed è quanto accade anche a Carmy: con la parola condivisa – in occasione delle riunioni degli alcolisti anonimi, che frequenta per elaborare le dipendenze patite dai membri della sua famiglia, per interrompere il ‘trauma’ – e con la parola che impone distanza – l’appellativo chef, rivolto cerimoniosamente a tutti i membri della brigata –, trova la sua negoziazione, il suo punto medio, tra appartenenza e soggettività, tra origine e divenire, tra la sua identità di figlio e quella di uomo adulto indipendente, che impara a occuparsi degli interessi della sua famiglia senza più subirne le regole castranti e ricavando per sé lo spazio di autonomia necessario a dettare le condizioni e ad autodeterminarsi. 

4. Montaggio e sonoro ‘post traumatici’ 

‘The Bear’ è articolato in otto episodi, di durata variabile.

The Bear non è allora soltanto, disneyanamente, un fairy tale che mescola commedia e tragedia, malessere contemporaneo e buoni sentimenti, perdizione e riscatto, lutto e sopravvivenza al lutto, ma anche un mosaico complesso di segni in cui la materia rappresentata è assorbita dalle forme di rappresentazione. Uno degli aspetti tecnici più funzionali e riusciti è il modo in cui la storia rappresentata viene ritmata, nella riproduzione mimetica, attuata attraverso un sonoro incalzante e un montaggio che disarticola e neutralizza una narratività didascalica, del bombardamento di stimoli a cui è soggetta una vittima di stress post traumatico. Il montaggio e la colonna sonora sono anch’essi a servizio della metafora, di una visione complessiva che aggancia il piano letterale ai suoi significati più ampi. Il ricorso al piano sequenza nell’episodio 7 – La Recensione – è un’eccezione: smaglia e rompe la tessitura, infrangendone la regolarità, assecondando l’intenzione registica di replicare gli effetti di un’esposizione eccezionalmente prolungata, senza soluzione di continuità, a richieste ambientali sovrastanti l’umana capacità di farsene carico a così alta intensità e a un così sostenuto ritmo di lavoro. 

In generale, sia Carmy sia Sydney, la sua sous chef, vivono il loro impegno in cucina in modo talmente immersivo da esserne assediati: il portato traumatico del carico stressogeno ritorna, nella forma di un’irruzione, anche quando si sentono al riparo, anche quando, deposte le difese, provano a concedersi una breve parentesi di pace, ad esempio durante il sonno. Certi lavori, ci dice Stoner, che sa bene di cosa parla perché ex ristoratore lui stesso, sono una guerra e disattivare il circuito adrenalinico è impossibile. The Bear lo mostra alla perfezione e lo fa non tanto narrativamente, attraverso la scrittura, quanto attraverso il modo in cui l’insieme di segni verbali e visivi sono montati (oppure no) e scanditi per mezzo della ‘punteggiatura’ sonora. 

5. Il lettino (singolo) di Sydney, working-class heroine

In uno degli ultimi episodi della serie, vediamo Sidney che si alza all’alba dal suo lettino (singolo, striminzito), si prende un ansiolitico e si butta, mezza addormentata, sulla metropolitana che la porterà al lavoro. Sydney non ci viene presentata mai né come una wonder woman né come una sprovveduta: è salda, priva di fronzoli, ma con un lato svagato e ancora acerbo, quasi infantile, che la rende goffa, spesso esitante o reticente. Anche se non è immediato coglierlo, è l’alter ego del protagonista: performante sul lavoro, tentennante fuori, nelle questioni della vita ‘vera’ (o meglio nelle questioni di quella vita vera che sopravvive alla vita vera spesa nel lavoro). Alla sua caratterizzazione concorre anche un pragmatismo per così dire materialista, uno spirito da contabile, ed è uno degli aspetti pregevoli della serie: i soldi, materia scottante di cui spesso non vogliamo parlare, entrano di peso in The Bear

In questo ricorda un po’ la mini-serie Netflix Maid, grande successo dello scorso anno: lavorare è necessario non solo per affermare sé stessi (la concezione del lavoro come strumento di affermazione è presente tanto in Maid quanto in The Bear: del resto, è caposaldo della cultura americana), ma anche per guadagnare dei soldi necessari alla sussistenza e, se si ha un’attività imprenditoriale, anche per finanziare quest’ultima o, più banalmente, per mantenerla e far fronte alle numerose incognite, fosse anche solo il guasto delle tubature del bagno. Sydney è il personaggio che più energicamente riporta Carmy al principio di realtà: mangiare non è mai solo nutrire la pancia, ma per nutrire la pancia, e altro, serve comunque il denaro, molto denaro. Ignorare la dimensione materiale del vivere non è segno di preoccupazioni più elevate, ma di una codardia profonda, del rifiuto di dare un prezzo a ciò a cui si tiene, nella speranza infantile che sia qualcun altro a pagare per te. Ma, in questa sua avventura agrodolce di formazione, Carmy ci sembra abbia modo di imparare anche questo: che ogni sogno va pagato. Anche a costo di parecchia conserva buttata.