Perché Michela Giraud conquista. La sua ironia contro pietismo e ipocrisia

Colpo di fulmine per lo spettacolo dell’umorista romana. Un prodigio di grazia e intelligenza che diverte, incanta e fa riflettere.

Le mie passioni erano il prosciutto e stare con gli altri bambini, e stare con gli altri bambini per me significava menarli. Dato che ero una bambina grassa e violenta, i miei genitori pensarono di iscrivermi a qualcosa che assecondasse le mie inclinazioni: la danza classica”. A circa metà del suo one woman show di stand-up comedy, l’umorista romana Michela Giraud – ambiente di provenienza: famiglia (alto)borghese di militari con ascendenze francesi e simpatie clericali – ironizza sulla sua infanzia vissuta da sorella minore di una ragazza con una diagnosi di Asperger, neurodiversità che non compromette le capacità intellettive, ma sì la qualità delle interazioni sociali, in un quartiere in cui le altre bambine “erano tutto ciò che noi non eravamo: magre, perfette, sicure di sé, leggiadre, viziatissime”

Il ricordo condiviso di quelle lontane lezioni di danza, primo teatro della sua (auto)percepita goffaggine, e quindi della sua vulnerabilità allo sguardo giudicante delle compagne e dell’insegnante, ci consegna tuttavia un’istantanea di Michela Giraud che, con buona pace della maestra Pina, affilata tanto nella silhouette quanto nella lingua, non corrisponde all’impressione che, dai nostri occhi e dalle nostre orecchie, oggi ci attraversa: quella di trovarci di fronte a una donna e a un’artista comica di rara eleganza.

La shistorm per lo sfortunato tweet sul “loro” di Demi Lovato: autocritica e critica sociale si fondono nello spettacolo

Michela Giraud è nata a Roma il 28 luglio del 1987. È laureata in Storia dell’arte e ha conseguito un master in Drammaturgia all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico di Roma.

In Michela Giraud: La verità, lo giuro!, disponibile su Netflix dal 6 aprile 2022, non c’è un solo momento che si sottragga alla grazia della sua autrice e attrice: in una torsione ballerina – ed ecco allora che non è vero che non è capace di danzare leggiadra, come ritiene sappiano fare solo le crudeli viziatissime di cui sopra –  sovrappone l’autocritica alla critica sociale quando ripercorre lo shitstorm che l’ha investita a seguito di un tweet in cui scherzava sulla richiesta espressa dalla non-binaria Demi Lovato di essere definita dal pronome “loro”. 

Nella suscettibilità delle ragazzine che, in quell’occasione, le avevano rivolto cinguettii di rimprovero dai toni ingiuriosi riconosce la fragilità narcisistica di chi cerca nelle battaglie di civiltà solo un paravento identitario, un sostegno al vuoto di sapersi: nell’aprire un varco alla riflessione, senza apparecchiarla, ma suggerendola con naturalezza, Giraud da comica diviene umorista e da umorista si fa satirista. Dissacra sé stessa e le sue detrattrici di allora, ma per colpire un altro bersaglio: la perversione sociale di trovare significati laddove non ci sono nella dimenticanza di leggere al di là della superficie – il risentimento degli adolescenti ripiegati sui loro nobili ideali a favore di like e retweet che li consolino della loro invisibilità – nel momento in cui sarebbe invece necessario farlo. 

La libertà di non piacersi: Michela Giraud contro ogni recinto definitorio (e definitivo) 

In Michela Giraud: La verità, lo giuro, disponibile su Netflix, l’umorista romana si esibisce davanti al pubblico del club Vinile a Roma.

Del resto, Michela Giraud comprende – e, di rimpallo, conduce il suo pubblico a comprendere – che ogni etichetta è approssimativa e che in ogni etichetta si nasconde una costrizione ma anche una garanzia fallace: chiamare “curvy” chi, come lei, è ritenuto in sovrappeso, secondo parametri estetici condivisi, sostituisce significante con significante, ma non risolve la mania ultima della ghettizzazione. Ingentilire un termine non solo non modifica l’intenzione di chi lo pronuncia ma spesso sottolinea che c’è qualcosa da ingentilire. 

Quando i chili in più – o in meno – non saranno più qualcosa a cui presteremo attenzione, forse allora il cambiamento si sarà avverato, ma, nel frattempo, non ci salverà autoconvincerci o autoproclamarci innamorate di noi stesse e del nostro corpo. Semplicemente perché non è vero e, anche qualora fosse vero, sarebbe uno stato transitorio quale ogni altra condizione che interessa l’umano. Non vi è autostima che possa considerarsi definitiva perché la libertà di piacersi proviene dalla stessa fonte del suo contrario: la libertà di trovarsi così così, a volte persino di farsi schifo (“È come se la vita fosse questione di assoluto… è fisiologico che non ti puoi piacere sempre: un giorno ti svegli Beyoncé; un altro giorno ti svegli Magalli”). 

Il racconto della disabilità: l’Asperger della sorella Cristina 

Michela Giraud, nel suo show, racconta di com’è stato crescere accanto a una sorella affetta da un disturbo dello spettro autistico

La stortura che Giraud va a incidere riguarda la tendenza a voler far tornare i conti che non tornano, la mania di semplificare e di ricondurre tutto a una griglia, un reticolato rassicurante. Il racconto della disabilità della sorella Cristina – affetta da un disturbo dello spettro autistico a causa del quale non conosce filtri e, incapace di inserirsi nelle dinamiche relazionali consuete, è disinibita da ogni scrupolo o senso del comune pudore – è per lei l’occasione di pungere con sottigliezza l’impaccio di fronte a una forma di aticipità che non si annuncia con una sedia a rotelle o con una deformità fisica, e non è dunque facilmente identificabile dai più. 

All’incomprensione altrui, a cui si aggiunge spesso l’atteggiamento pietistico o la confusione degli ordini di grandezza di un problema – “senti, anche io, mi voglio confessa’ con te, c’ho un grande dolore nel core… mi padre… c’ha er colesterolo alto” –, Michela Giraud risponde facendo ciò che qualsiasi drammaturga comica di rango dovrebbe fare: rimette tutto in prospettiva. Insieme a lei, il pubblico, divertito e anche un po’ (com)mosso, guadagna quella posizione di distanza che permette di guardare alle cose con la levità salvifica di chi ha imparato a mantenere la presa sul loro esatto valore. Alla madre che le spiegava che la sorella aveva uno scolapasta al posto della testa, lei, bambina, era solita rispondere preoccupata “mamma, non è che anche io c’ho ‘sta sindrome?”. La replica materna – “No, te sei solo curvy!” –, nella ripetizione del ricordo rimaneggiata dalle esigenze istrioniche, rimbalza sul palco come memoria della scaturigine del suo talento: sentire che c’è differenza tra la ciccetta sotto le braccia e il dolore di non poter essere compresi. 

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