Il Commissario Ricciardi e Lino Guanciale: il fascino dell’immobilità (sentimentale)

SPOILER ALERT — L'inibizione affettiva del Commissario Ricciardi, di ritorno su Rai Uno, non si è ancora sciolta. Ma il fascino del detective assediato dalla 'voce' risiede anche nella sua staticità, nella sua paura di vivere e amare. Una nevrosi antica e contemporanea.

Ritroviamo su Rai Uno Il Commissario Ricciardi in quattro nuovi episodi, corrispondenti ad altrettanti libri firmati dal giallista partenopeo Maurizio De Giovanni: Febbre; Anime di vetro; Serenata senza nome; Rondini d’inverno. Un Lino Guanciale sbarbato con gli occhi verdi illanguiditi dalla malinconia: è sempre lui; nulla sembra essere cambiato. Forse attorno a lui, ma non dentro di lui. Il Brigadiere Maione chiede scusa a una signorina mai maritata per una battuta infelice sulla sua scarsa avvenenza: dà mostra di una sensibilità nuova, di un’attenzione alle forme meno banali che può assumere il femminile. Il Dottor Enrico Modo si lascia andare ai sentimenti per una prostituta: concede qualcosa di sé, allenta le resistenze.

Il Commissario Ricciardi, invece? Si sveglia sudato dopo un sogno erotico – nulla di sconveniente: anche la sua dimensione onirica si esprime attraverso un’estetica di controllata eleganza formale – di cui è protagonista insieme a Enrica, la maestra sua dirimpettaia. Il suo amore per lei è ancora allo stadio delle incertezze e dei sospiri, dei tentennamenti ossessivi rispetto all’opportunità di agire. Intanto la maliarda Livia, ex cantante lirica dalle amicizie facoltose, non molla la presa. Difficile arrendersi al rifiuto, quando si possiedono bellezza, magnetismo, potere, seduttività.

Il Commissario Ricciardi ritorna ed è tutto uguale a prima. L’irresistibile fascino della staticità

Il Commissario Ricciardi, personaggio nato dalla fantasia di Maurizio De Giovanni, è un nobiluomo cilentano costretto a trovarsi una ‘fatica‘ – indagare sui crimini che scuotono Napoli – per zittire le voci delle persone morte ammazzate che reclamano giustizia, dono-castigo ereditato dalla madre Marta. È un uomo ipereducato, un po’ imbrigliato, però dalla sensibilità acuta. Uno che sa bene che bisogna sempre gettare lo sguardo oltre le apparenze. L’assassino, o l’assassina, non è mai chi avrebbe motivo per uccidere, ma chi uccide perché sente un richiamo, molto spesso pulsionale, erotico nel senso più ampio del termine. Non si ammazza quasi mai per debiti di gioco, vantaggio personale, brama di potere, raptus bestiale; molto più spesso lo si fa – come ci insegna l’episodio Febbre, il primo dei quattro in programma su Rai Uno – per paura di perdere l’amore. Ci sembra di sentirlo, Massimo Ranieri, anche a lui non a caso napoletano, che pur anacronisticamente canta in sottofondo la sua canzone più struggente.

Le fasi delle indagini di Ricciardi sono spesso prevedibili: quasi sempre, il colpevole è il primo testimone incontrato, quello apparentemente da scartare subito, ma che infine, cadute tutte le altre possibilità, si rivela l’insospettato – perché di primo acchito insospettabile – colpevole. Uno schema che si ripete. Ricciardi simpatizza spesso con chi uccide ed è consapevole che essere una vittima non garantisce la bontà o l’innocenza, concetti di per sé transitori e relativi. Forse simpatizza con l’assassino anche perché lui non rischia mai di perdere l’amore, di uccidere per preservarlo, non accogliendo mai il rischio neanche di provarlo. Non si può perdere ciò che non si ha.

Il fascino maggiore di questa serie di grande successo di pubblico sembra sprigionarsi, quasi per paradosso, proprio dalla sua staticità. O, se di staticità non si tratta, dal suo movimento lento, impercettibile, dall’avvitamento di atmosfere e psicologie. Napoli non è la città stordente a cui siamo stati abituati dalle modulazioni ipercinetiche di immaginari letterari, cinematografici, pubblicitari o televisivi che la riguardano; è, piuttosto, uno spazio sospeso, metafisico, appesantito sia dall’affermazione di un’ideologia repressiva come quella fascista sia dalla compressione emotiva che inchioda alla fissazione psichica chi la vive. La Napoli di Ricciardi somiglia a Ricciardi: è sigillata nella nebbia, quasi fosse una città padana.

Il Commissario Ricciardi: la paura e il dolore di sentire troppo

Maria Vera Ratti nel ruolo di Enrica, la giovane donna di cui il Commissario Ricciardi è innamorato.

Il detective aristocratico interpretato da Lino Guanciale, perfetto nel ruolo per l’aspetto levigato e la sottigliezza che è in grado di conferire alle modulazioni emotive, ci coinvolge perché, nel tentativo di rintuzzare la sofferenza, di rinchiuderla in un recinto interno di autodisciplina sacrificale, quella sofferenza ce la fa sentire tutta. È il dolore di chi ha paura di vivere e di amare, e tuttavia lo desidera con un’urgenza urticante; è il dolore di chi ha paura di sentire troppo e pure sente troppo proprio perché si rifiuta di farlo e, per questo, si scherma, si crea alibi, si dice che il suo destino è la solitudine. Un circolo vizioso di autodistruzione per un lento consumarsi nell’immobilità.

Come faccio a mettere al mondo dei figli se poi dovrò consegnar loro in eredità questo dolore di sentire troppo? Ed è sia un sentire, per trasmissione di una tara ‘divinatoria’, le voci di chi è stato sottratto ingiustamente alla vita sia un avvertire, più universalmente, i sentimenti di perdita e rifiuto a cui è esposto inevitabilmente che si dà la possibilità di amare: questo è l’interrogativo con cui Febbre si apre e che riecheggia fino ai titoli di coda. Ci ricorda certi dilemmi attuali: perché mettere al mondo dei figli se il mondo sta bruciando ed è straziato dalla nostra noncuranza nei confronti della fragilità della Terra e dei suoi abitanti? Perché aprire la propria casa e scommettere su un legame se questo legame è, per sua natura, come ogni cosa umana, votato alla fine? Tanto più in una società che sembra agonizzare.

Nella costruzione del personaggio protagonista – come spesso, nei gialli, metà del lavoro immaginativo, e, se riuscito, della ragione del successo dell’impresa – si sovrappongono l’antico e il contemporaneo: Ricciardi è sia un uomo d’altri tempi – dei suoi tempi: gli anni Trenta – sia un esemplare di maschio moderno afflitto dai dubbi e da forme ben camuffate di ordinaria viltà. Eppure, contiene in sé qualcosa di ancora più universale, trascendente rispetto al genere. Come noi tutti eterni nevrotici, si nega di amare per salvare l’altro amato – una donna; un figlio – dal dolore che pensa gli/le infliggerebbe con il suo amore. Naturalmente, però, l’atto è egoistico: si nega di amare per proteggersi lui dal dolore di ritrovarsi solo e ancora più disarmato e vulnerabile del solito. Meglio allora restare solo, ma ben corazzato, come sempre. Nell’evoluzione di questa stagione, forse, però, per lui cambierà qualcosa. Chissà che il Commissario Ricciardi non comprenda finalmente che, se si sta sempre alla finestra, senza aprirla mai sul fuori, senza aprirla mai al due della relazione, si perde in ogni caso. Di certo, l’occasione di amare, che è in fondo l’occasione di vivere. E, quindi, di cambiare. Chissà che Il Commissario Ricciardi 2, a dispetto della sua irresistibile staticità, non prenda movimento, prima o poi.

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