Perché Hill House è la serie horror del momento?

In uscita il 12 ottobre su Netflix, Hill House, la prima serie del maestro dell'horror Mike Flanagan, è la serie del momento: ecco perché non potete perderla. 

In origine venne American Horror Story. A seguire, nel panorama attuale, quella che suona come una valanga di materiale a sfondo orrorifico e paranormale, da cui è il caso di isolare la recentemente approdata in Italia (e nel mondo) Hill House (The Haunting of Hill House). La serie è basata sul romanzo del 1959 L’incubo di Hill House di S. Jackson, da cui già, a dire il vero, si era tratto il film Haunting – Presenze (1999). Al timone, Mike Flanagan, regista e sceneggiatore di cui è doveroso ricordare Somnia e i più recenti (e ottimi) Ouijia e Il gioco di Gerald. Niente male. Era naturale aspettarsi, dunque, qualcosa dal forte impatto.

La serie è, essenzialmente, una versione estesa e rielaborata del romanzo, e si va a dipanare in dieci episodi, travalicando due generazioni (e, di conseguenza, due livelli temporali), in una lenta combustione che costruisce un crescendo di tensione notevole.

Ma esattamente perché Hill House è la serie horror migliore del momento? Scopriamo insieme le motivazioni principali!

È anche un dramma familiare

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La forza della serie è, anzitutto, la solidità del nucleo familiare che gli è protagonista: non c’è prima l’orrore, c’è prima la famiglia (e, abbiamo imparato, talvolta vanno a braccetto). Soprattutto quando la famiglia è disfunzionale, ma perfettamente funzionale all’interno della storia: i sette membri della famiglia Crain si trasferiscono, negli anni ’80, nella villa di Hill House durante il periodo estivo, con l’intenzione di restaurarla e poi rivenderla. Ma la magione infesterà la famiglia per decadi, con una violenza tale da mettere a dura prova le emozioni dello spettatore. Resteranno? Scapperanno? Tra i protagonisti si creano invisibili fratture metaforiche, muri psicologici che resistono alla comunicazione, producendo segreti e silenzi che non faranno altro che far strada ad atrocità spettrali. L’elemento gotico è certamente preponderante, ma l’orrore si fra presto strada tra le pieghe del dramma familiare.
Ed ecco il salto a trent’anni più tardi.

Il cast di Hill House è ipnotico e catalizzante

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Il salto temporale costringe al cambiamento d’attori, ma la finzione televisiva funziona a tal punto che l’età anagrafica perde la sua valenza realistica, e i personaggi, nel passare degli anni, sembrano avere effettivamente lo stesso sangue. Hugh (Henry Thomas) è il padre che sarà Timothy Hutton, mentre il più piccolo e pauroso Luke avrà il volto di Oliver Jackson-Cohen, un adulto problematico, un outsider, e la gemella Nell sarà impersonata da Victoria Pedretti, ottimista e malinconica al contempo, ancora traumatizzata dagli eventi passati. Elizabeth Raser interpreta la pragmatica e giudicante Shirley, a capo di un’attività di pompe funebri; Theo (Kate Siegel) ha importanti problemi socio-emotivi. Ogni personaggio è identificabile, ma non stereotipato, e la loro psicologia chiave è ritratta così bene da farne la vera forza della narrazione. Infine, Steven (Michiel Huisman), bambino e adulto scettico, ambisce alla fama tramite la pubblicazione dei suoi romanzi sul paranormale “tratti da una storia vera”  (ironicamente), e sarà infatti colui che allontanerà la famiglia. Il cast dei giovani fratelli e sorelle è, incredibilmente, all’altezza di quello dei futuri adulti, creando una connessione esemplare tra i due ambiti. In fondo, è una serie che ha come centro la mancanza di comunicazione tra i membri del nucleo, portata alle sue più estreme conseguenze, tanto che i personaggi, esemplarmente, di rado esplodono in urla di paura, ma si lasciano pervadere e raggelare da sentimenti silenti di terrore.

Semplicemente, perché il creatore di Hill House è Mike Flanagan

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Una garanzia. Flanagan riesce a tenere in piedi la serie per dieci episodi senza venir meno all’obbligatorietà della suspense, e di ogni altro elemento accattivante che riesce a rendere il prodotto una visione magnetica e attraente. C’è un ricco tappeto, assolutamente metodico, che porta ogni personaggio a crescere ed evolversi durante lo svolgimento della narrazione, tanto che l’opera sarebbe suddivisibile in due precisi livelli: quello prettamente inerente ai meccanismi dell’horror, e quello drammatico/psicologico che attornia i protagonisti, e nessuno dei due condiziona irrimediabilmente l’altro. C’è una grande compattezza, e allo stesso tempo indipendenza tra le parti. Non esattamente un caso. I momenti ritornano, elaborati diversamente, ma niente è gratuito, niente è inserito con il semplice proposito di “spaventare”: c’è sempre lo sviluppo e il crescendo che conta, e con esso ogni piccolo dettaglio da registrare e collegare, in un’armonia di intrecci francamente impressionante. Ma Flanagan è anche regista, e l’aspetto visivo non viene trascurato: fotografia e scenografia sono potenti e lavorano a braccetto con ogni altro elemento.

La villa è un’ambientazione perfetta

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Cavernose camere, lunghi corridoi fatte per essere infestati da fantasmi, sfarzose stanze che paiono appositamente costruite per riposarvi eternamente. È tutto al posto giusto, in questo set stregato: ogni angolo costituisce una sufficiente curiosità da alimentare e da saziare, portando il personaggio a sentirsi attratto da solo apparenti amenità. E la porta rossa? Nessuna chiave può aprirla. Insomma, è l’ambientazione magnetica a fare da vero e proprio personaggio, posseduto da vita propria, a fungere da costante minaccia.

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