C’era una volta mia madre: recensione del film di Ken Scott

L'autobiografia del giornalista radiotelevisivo Roland Perez diventa una favola pop con Sylvie Varnant.

In sala dal 4 dicembre 2025, C’era una volta mia madre è l’adattamento del romanzo autobiografico Mia madre, Dio e Sylvie Vartan di Roland Perez, avvocato e giornalista radiotelevisivo.
Il film è diretto da Ken Scott, cineasta canadese, senza infamia e senza gloria, con all’attivo una manciata di titoli abbastanza anonimi. La storia, ambientata in un arco di tempo che va dagli anni sessanta a oggi, è quella di Roland, ultimo figlio di una famiglia di ebrei francesi che nasce con una malformazione al piede destro. La madre Esther, di origine turca, non si rassegna alla sventura e, contro il parere dei medici, del marito e delle istituzioni, cerca un modo per far curare il figlio e permettergli di muoversi senza un tutore. Alla fine, grazie alla passione per l’icona delle ye-ye girl, Sylvie Vartan e soprattutto grazie all’aiuto di una guaritrice dai metodi non convenzionali, la donna riesce nel suo intento. Roland impara a camminare autonomamente, studia danza e recitazione, diventa avvocato, si sposa con un’altra donna forte e indipendente e conosce il suo idolo d’infanzia, la Vartan. Il tutto sempre all’ombra di un rapporto materno totalizzante e spesso ingombrante.

C’era una volta mia madre. Una favola degli anni 60

C'era una volta mia madre Cinematographe.it

La messa in scena cui ci sottopone Scott è abbastanza catchy. Fotografia patinata, con colori e scenografie che tendono a idealizzare la Francia del decennio 60-70. Un montaggio ben ritmato, scandito dall’utilizzo di canzoni pop d’epoca e una scrittura lineare che ha il respiro di una favola, più che di una storia realmente accaduta. I personaggi vengono caratterizzati, sia fisicamente che attraverso i dialoghi, in maniera diretta ed essenziale, facendo ricorso spesso a cliché e stereotipi di varia natura. Prendendo a piene mani dalla tradizione dei fumetti comici francesi, come nel caso di alcuni personaggi secondari – il vicino di casa fruttivendolo o il cliente viscido di Roland – e attingendo al repertorio di figure tipiche delle narrazioni filmiche di matrice ebraica – la madre volitiva e ingombrante, il padre un po’ imbelle – Scott palesa il suo intento di costruire una storia esemplare. Una sorta di racconto morale su una donna pronta ad andare contro il mondo, per amore del figlio. Tutto il film, in pratica, ruota attorno all’assioma che debba essere il cuore a comandare e non la ragione. Cioè non importa cosa dicano la scienza o la medicina, una madre sa meglio di tutti qual è il bene per il figlio.

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Questo tipo di cornice narrativa, però, se calata in un contesto sociale comunque realistico, risulta perniciosa. Al di là della validità dell’azione di Esther è la trasformazione di questo evento in una sorta di mito originario, attuato tramite la completa identificazione dello sguardo filiale e infantile di Roland con quello della macchina da presa, a fare del film un’affermazione visiva di irrazionalismo esistenziale, che trova le proprie radici nel misticismo religioso. Viene così negato il valore di tutta una serie di meccanismi civili che vorrebbero lo sviluppo dell’indentità legato al contesto collettivo e al rapporto con una realtà complessa, per ricondurre la formazione dell’individuo/cittadino all’idea tradizionale di famiglia – incarnata per metonimia dalla figura materna. Tanto che nel momento in cui gli sforzi di Esther sono ripagati, la donna ottiene una medaglia d’onore da parte del governo francese – nientemeno che da Chirac. Scott, in pratica, ristabilisce anche l’asse categoriale fra primato famigliare (su ogni velleità sociale/collettiva) e nozione di Patria.

Fra sacralità biblica e profanità pop

Va da sé che il terzo esponente della triade è altrettanto presente, sia nella sua forma tradizionale – citazioni di miracoli biblici e figure rabbiniche – sia in una forma più sottile e postmoderna.

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Il Dio che infatti permette il miracolo è sì quello della Torah, ma è anche incarnato dall’icona Sylvie Varnant. Figura abbastanza comune di showgirl degli anni 60-70, qui la Varnant assurge al ruolo di divinità televisiva neopagana. Le sue immagini (sacre) costantemente presenti nella casa del bambino Roland ne permettono la guarigione, così come anche l’azione benefica del suo verbo (le sue canzoni). La figura prettamente spettacolare e materiale della donna diventa, nel terzo atto del film, il divino che scende fra gli uomini, per sostituire l’ingombrante figura materna – surrogato sacro per eccellenza, come ci ricorda il film stesso che cita il Thackeray del romanzo Vanity Fair, senza però farne il nome.

C’era una volta mia madre. Valutazione e conclusioni.

Insomma questo C’era una volta mia madre, alla fine, appare come un’inquietante messa in scena elegiaca della triade Dio, Patria e Famiglia, ai tempi del capitalismo spettacolare, fatta passare per innocua commedia dei (buoni) sentimenti. Considerato il periodo storico in cui esce il film – un momento in cui, in Europa, si ritorna a parlare di guerra e valori tradizionali, mentre reazionari di varia natura sfruttano il richiamo delle ragioni del cuore e del primato del principio famigliare su quello sociale – appare inquietante come il cinema, velocemente, stia già producendo opere allineate, non tanto alla lettera politica, ma proprio allo spirito dei tempi. Insomma se va così in Francia – la produzione è francese – attendiamo il ritorno dei telefoni bianchi in Italia – se mai se ne fossero andati.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 2

2.6