The Running Man: 5 curiosità sul remake di Edgar Wright

Un viaggio alla scoperta di alcune particolarità e curiosità della pellicola distopica di Edgar Wright

Il remake The Running man diretto da Edgar Wright rappresenta uno dei progetti più discussi e attesi del panorama sci-fi moderno. Conosciuto per il suo stile unico, fatto di ritmo serrato, humour calibrato e un utilizzo creativo del montaggio, il regista britannico affronta qui una materia più cupa e politica, adattando il romanzo di Stephen King (firmato con lo pseudonimo di Richard Bachman) con un’attenzione inedita al dramma umano e alla critica sociale. Ecco 5 curiosità che raccontano la genesi e il carattere di questa nuova interpretazione di un film già portato sullo schermo nel 1987 con protagonista Arnold Schwarzenegger.

1. The Running man: un progetto coltivato a lungo

The Running Man, Edgar Wright cinematographe.it

La storia produttiva di The Running man è lunga e complessa: Wright ha iniziato a parlare pubblicamente del desiderio di adattarlo già nel 2021, ma tra diritti, sceneggiatura e impegni paralleli la lavorazione si è allungata. Il film è quindi anche la testimonianza di una visione artistica tenuta viva nel tempo, un esempio di progettualità rara nel cinema contemporaneo. La perseveranza mostrata da Wright è in parte dovuta al rapporto personale che ha con il materiale originale. In più occasioni ha raccontato come The Running man sia stato uno dei romanzi di King che lo ha più colpito da giovane.

2. Differenze tra The Running man e L’implacabile

Differente dalla rilettura muscolare del 1987 con Arnold Schwarzenegger, distribuito in Italia col titolo L’implacabile, il The Running man di Wright punta a restituire la natura distopica e scomoda dell’opera originale, raccontando una società in cui l’intrattenimento diventa un’arma di controllo. Non che questo intento mancasse del tutto nell’opera precedente, ma era molto marginale, al servizio di un intrattenimento basato prettamente sul dinamismo e sulla sua natura di survival action. In tal senso, una delle prime precisazioni fatte da Wright è stata la volontà di evitare qualunque confronto diretto con il film anni ’80. Il progetto nasce come un adattamento fedele al tono del romanzo, più crudo, disperato e quasi anarchico nella sua denuncia del potere mediatico. Questa scelta apre la strada a una narrazione meno action e più orientata alla tensione e alla paranoia sociale.

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3. Lo stile estetico anni ’70

In controtendenza rispetto al suo stile più pop e colorato, Wright ha scelto di plasmare il suo The Running man su suggestioni visive più dure: urban decay, televisione-spettacolo, violenza mediata. Tra le influenze dichiarate emergono il cinema paranoico anni ’70, la fantascienza politica e una fotografia fredda che amplifica la sensazione di sorveglianza e controllo. Un look che rinforza la critica alla società dello spettacolo, vero fil rouge del racconto.

4. Un protagonista più fragile e realistico

Il protagonista immaginato da Wright, ed interpretato da Glen Powell, è più vicino a quello dell’opera letteraria di King, distante dall’eroe muscolare e risolutivo proposto da Schwarzy. Nel Cult interpretato da Arnold Schwarzenegger, il personaggio di Ben Richards veniva trasformato in un vero e proprio eroe d’azione anni ’80: muscolare, carismatico, capace di affrontare i “cacciatori” con ironia e una fisicità sovrumana. La sceneggiatura spingeva fortemente su un immaginario spettacolare e sopra le righe, trasformando Richards in un simbolo della resistenza pop contro un sistema televisivo corrotto, ma sempre mantenendo la leggerezza tipica del cinema d’intrattenimento di quel periodo.
Nel remake, invece, si tratta un uomo ordinario trascinato nell’arena mediatica, costretto a sopravvivere non solo ai cacciatori ma anche alla macchina narrativa che lo trasforma in intrattenimento. Una figura più vulnerabile, più complessa, che permette al film di lavorare sul tema dell’identità distrutta dallo sguardo del pubblico.

5. Il montaggio come stile narrativo

Il montaggio è sempre stato il tratto distintivo del cinema di Edgar Wright, ma in The Running Man assume un ruolo ancora più centrale. Non si tratta solo di ritmo o di energia visiva: Wright usa il montaggio come strumento di costruzione drammaturgica, capace di modulare tensione, percezione e persino moralità della scena. Ogni taglio non serve semplicemente a “mostrare di più”, ma a controllare l’informazione, guidando lo spettatore dentro un flusso dinamico che tiene insieme azione, emozione e satira.

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